Antonia non tornò più: dovevo averla ferita a morte. La psiche umana è strana, dottore, così strana che non so se valga la pena di perdere tempo a tentare di decifrarla: non serve per evitare i tragici errori che in ogni caso siamo destinati a commettere. Nei primi tempi non sentii niente: né dolore né rimpianto, niente di niente. Prevaleva su tutto il senso di liberazione: mi sentivo come una mongolfiera che avesse gettato in mare una zavorra il cui peso era divenuto ormai intollerabile. Fluttuavo, nel vero senso della parola. Ero felice di esistere, di scaldarmi al sole, di respirare l’aria, di camminare per le strade a naso in su, di guardare le nuvole, libero, solo, pulito. Sperimentavo di nuovo la sostenibile leggerezza dell’essere, che era stata il mio modo di essere per tutti i lunghi mesi trascorsi al fiume con il mio cane, prima che un incidente di percorso venisse a turbare la mia serenità. Dopo qualche settimana cominciai a sentirmi un po' troppo leggero, più che una mongolfiera un palloncino, gonfio di elio, pieno di vuoto. I miei pomeriggi divennero l’apoteosi del nulla, quella ingenua serenità lasciò il posto alla noia. Iniziai a sentirmi trasparente: mi stavano proiettando su uno schermo, e il film era una noia mortale. Poi, non saprei come esprimere quella sensazione, la pellicola iniziò ad assottigliarsi, finché le immagini divennero del tutto inintellegibili, ombre evanescenti come quelle degli alberi che il sole proiettava sulle tende della mia camera. Passavo le ore disteso sul letto a fissare il soffitto; non portavo più Tegame al fiume: quando si lamentava gli aprivo la porta e lo lasciavo uscire in giardino, da solo. Un giorno, senza motivo apparente, mi misi ad aprire tutti i cassetti della mia camera. Incominciai a trovare pezzi di ricordi: s'infilavano dappertutto, fra le pagine dei libri, fra le note di una canzone, nell’odore del cuscino, e filtrati dalla lontananza non erano più così orribili, anzi portavano con sé una specie di seducente dolore. E il ricordo del piacere, be', quello era fin troppo tangibile. Ed eccoci al punto, dottore: non avevo mai fatto i conti con l'astinenza. Prima era diverso, non avevo mai conosciuto il sesso vero, che avevo sperimentato solo con lei. Mi mancava ogni giorno di più. Però, incredibile a dirsi, sulle prime non me ne preoccupai: ero ancora in preda al mio delirio di onnipotenza e pensavo di poterla surrogare facilmente. Cos’era lei in fondo? Una trentenne mediocre, una cagnetta in calore con gli occhiali e l’aria da intellettuale, un bluff: i maschi annusavano la sua disponibilità all’accoppiamento e la scambiavano per fascino. Non c'era molto da rimpiangere: da questo punto di vista aveva ragione lei, io ero oggettivamente troppo giovane, il nostro rapporto sarebbe comunque finito presto. Peggio per lei se era stata così stupida da lasciarsi coinvolgere. Finii per convincermi che Antonia era stata solo un capitolo della mia vita, per quanto importante: "un'esperienza", come si suol dire; ma ora era acqua passata e dovevo guardare avanti. Avevo tutta la vita davanti a me eccetera eccetera. E così, di luogo comune in luogo comune, arrivai a recuperare una sorta di malfermo equilibrio interiore, anche se qualcosa dentro continuava a rodermi e in cuor mio sapevo che le cose non stavano così. La risposta era troppo banale, e le risposte banali, a differenza di quelle semplici, non sono mai vere. Ma in quel momento non avevo alternativa: dovevo crederci. Fu così che mi procurai qualche scopata con ragazze di cui non ricordo neanche il nome. Ero convinto che con quelle esperienze volgari avrei messo a tacere il mio corpo, per poi potermi finalmente dedicare a cose più serie. Rimasi letteralmente sconvolto dalla sorpresa: durante quegli incontri sessuali tutto restava uguale, i mobili rimanevano mobili, il tappeto rimaneva un tappeto, si sentiva l'odore della cera appena passata e quello di deodorante delle loro ascelle, loro pretendevano il preservativo (con lei non lo usavo mai), dicevano oh sì dai ancora come in un fotoromanzo di quart'ordine, io sfoggiavo la mia tecnica come meglio potevo, ma non ero più bravissimo, anzi neppure bravo, anzi ero appena passabile, anzi a dirla tutta non me ne fregava un cazzo di quello che provavano loro e non vedevo l'ora di finire. E poi quella sensazione irriconoscibile, che non saliva al cervello: nessun brivido cosmico, nessun delirio, nessun decollo. La scoperta della mediocrità del sesso fra estranei fu per me un vero shock. Smisi di cercare quelle ragazze e cominciai a passare le ore chiuso in camera rievocandola con il pensiero. Ho sempre nutrito un segreto disprezzo per la masturbazione, che considero un mediocre surrogato del sesso vero; sfogare le tensioni ormonali in quel modo mi appare per quello che è: una pratica degradante e autoreferenziale. Vorrei chiarire una cosa al di là di ogni dubbio: il sesso per me è un mezzo di profonda e intima comunicazione. Comunicare con me stesso non m'interessa: se proprio devo, preferisco scrivere un diario. Eppure in quel momento mi parve l'unica alternativa allo squallore di quei rapporti occasionali: Antonia sognata, Antonia solo immaginata era mille volte più appagante di quelle ragazze; potevo chiudere gli occhi ed illudermi di essere di nuovo preda di uno dei suoi micidiali agguati nello sgabuzzino, potevo pensare che quelle mani fossero le sue, potevo di nuovo sognare. Poi uscivo dalla mia camera e la vedevo seduta in salotto, intenta a chiacchierare con mio fratello come se niente fosse. Mi ignorava ostentatamente, tanto da suscitare lo stupore di Michele, che un giorno le chiese cosa le avessi fatto e perché non volesse più darmi ripetizioni: rispose che non studiavo abbastanza e si voltò per un attimo a guardarmi, lanciando un'occhiata ironica alle mie occhiaie scure. Andai in cucina da Teresa, che mi consolò con la solita cioccolata calda. Ero malato: nuotavo nell’acquario con quella strana muffa addosso, in attesa della goccia di formalina versata da una mano pietosa. Aspettavo soltanto un segno. E il segno arrivò, in un tremendo pomeriggio di fine ottobre. Questo non posso raccontarlo, dottore: posso provare a raccontare tutto, ma non l'orrore. Mi scuserai quindi se il mio resoconto risulterà vago e approssimativo, ma davvero, questo non puoi pretenderlo da me. Ero in camera, disteso sul letto, e fissavo il soffitto cercando di immaginare un'alternativa alla mia musica, che non riuscivo più ad ascoltare. Mio fratello si affacciò alla porta e mi disse qualcosa tipo ma non hai niente da studiare, nessuno da andare a trovare, il cane da portare fuori, a proposito Tegame dov'è? Non dovresti trascurarlo così. Bofonchiai qualcosa in risposta e mi concentrai nuovamente sul mio problema. All'improvviso sentii un guaito provenire dal giardino. Come risvegliato da un colpo di sonno, guardai sul letto: Tegame non c'era. Da quanto tempo non lo vedevo? Mi precipitai in giardino con il cuore in gola e lo vidi seduto sulle zampe posteriori in una strana posizione: un grosso dobermann stava scappando attraverso un buco nella recinzione. Mi avvicinai con le gambe tremanti: aveva la giugulare squarciata da un profondo morso; perdeva sangue dal naso e dalla bocca, tossiva e mi guardava scodinzolando come per chiedere scusa. Mi resi subito conto che non c'era niente da fare. Persi completamente la nozione del tempo, dello spazio, della mia stessa identità: ero solo un profondo baratro di orrore. Rimasi vicino a lui, accarezzandogli la testa, fino alla fine, e in quei quarantacinque minuti, che non descriverei neppure sotto minaccia di tortura, la mia anima si squarciò in modo irreparabile. Avvolsi il cadavere del mio cane nella sua copertina nuova di morbidissimo pile, un pensiero gentile di mio fratello per il mio ritorno da Cambridge, lo portai in motorino fino alla radura nel bosco e con attrezzi di fortuna, pezzi di assi e rami scheggiati, scavai una fossa abbastanza profonda. Ricoprii la buca di foglie, in modo che la terra non fosse a diretto contatto con il corpo, e poi ci piantai sopra una rudimentale croce. Rimasi seduto lì tutto il pomeriggio, inebetito dal dolore e dal rimorso, tremando convulsamente, senza versare nemmeno una lacrima. Il segno era arrivato: ora finalmente era tutto chiaro. Tutto quello in cui avevo creduto era il sogno di un bambino, e quel sogno era finito. Un'era geologica, non un capitolo della mia vita, si era conclusa. Sapevo perfettamente che il rimorso mi avrebbe perseguitato per tutta la vita e sarebbe stato incancellabile: perché è impossibile dimenticare di aver causato la morte atroce di una creatura che ami profondamente e che si fida di te, ed è inutile che voi psicologi cerchiate di convincerci del contrario: è come dimenticare il bambino sul sedile posteriore dell’auto ad agosto e ritrovarlo morto soffocato tra atroci stenti: come si fa a guarire da una cosa del genere? Come cazzo si fa, dottore? La verità è che l'anima riceve delle ferite mortali dalle quali non guarisce più. Si può solo cercare di sopravvivere. Ero atterrito dal pensiero del futuro. Tutto quello che aveva rappresentato la mia fede, il mio credo, la mia fiducia nel bene, la mia volontà di fare il bene, era saltato in pezzi. Io avevo fatto il male, io ne ero stato capace: non solo avevo ferito consapevolmente Antonia, ma avevo fatto del male orribile ad una creatura che avevo salvato, che amavo moltissimo e che avrei voluto proteggere. Quale abominevole ironia della sorte, quale Dio malvagio mi aveva giocato questo orrendo scherzo? Di chi ero diventato lo zimbello? Chi ero? Avevo solo sedici anni: sentivo che già a venti la mia psiche sarebbe stata devastata da questo tormento interiore. Sapevo che era impossibile non pensarci, dimenticarmene: forse solo con un elettroshock o con una lobotomia avrei potuto riuscirci, ma continuare la mia vita in uno stato vegetativo, ridotto a un perfetto ebete, era una prospettiva ancora più inaccettabile. Forse solo la presenza di Antonia al mio fianco, nel bene come nel male, avrebbe potuto salvarmi in quel momento, ma lei non c'era più: né per consolarmi né per prendermi a schiaffi. Avrei accettato qualsiasi cosa da lei, perfino di condividerla con Frédéric o con chiunque altro, perfino di accantonare il sesso e rimanerle accanto come un fratello, purché mi avvolgesse in un abbraccio e mi stordisse con il suo va tutto bene. Solo una volta, pochi giorni dopo la morte di Tegame, lei mi si avvicinò in corridoio mentre andavo nella mia stanza e mi prese per mano. Ero troppo depresso perfino per sentirmi sobbalzare il cuore in petto: avvertii soltanto un confuso dolore all'altezza dello stomaco. - Mi dispiace tanto, Emmanuel. - disse - So quanto fosse importante per te e gli volevo bene anch'io. Non lasciare che la tristezza diventi troppo profonda, prendine subito un altro. La guardai con lontano compatimento: - Un altro, certo. Lei proseguì: - Io comunque ti sarò sempre vicina: non dimenticarlo mai. Liberai la mano dalla sua ed andai da solo al fiume, dove rimasi per tutto il pomeriggio accanto al mio cane. Faceva freddo, l'autunno era ormai inoltrato e l'erba era chiazzata di foglie dorate cadute dai pioppi: mi strinsi nel mio giubbotto e mi raggomitolai su me stesso. Compresi che tutto questo non era casuale: dovevo solo sforzarmi di capire. Ne parlai a lungo con Tegame. Poi lo portai a fare qualche passo lungo la sponda. Fissando il luccichio dell'acqua ed ascoltando la sua voce sommessa compresi la risposta, di una semplicità disarmante. Non avrei dovuto soffrire ancora a lungo: la mia eliminazione era prossima.