Teen mode on. Odio la tua terapia, odio essere costretto a farti leggere le mie cose personali. Odio le minchiate da rivista femminile, odio quei cazzo di scrittori e registi che si fanno i soldi con le seghe mentali degli adolescenti e tutte le altre puttanate del genere. Shit, rommel. Teen mode off. Per accontentare l'analista, che mi ha prescritto come terapia la redazione di un diario quotidiano, mi accingo a ridurre la mia vita a sdolcinata paccottiglia, sbrodolatura da rotocalco, patetico libro da capezzale per ragazzine sentimentali, soggetto ideale per sceneggiatori di b movies mediocri. Bene, coraggio Emmanuel, ti tocca. ... Sono le sette di sera di un mercoledì di giugno. Disteso sul letto con Tegame convalescente arrotolato addosso, ascolto la mia musica e contemplo il pugno di mosche che mi ritrovo in mano. Questa parentesi estiva è come una palude di sabbie mobili; scruto la sponda opposta con l’acqua alle caviglie, ma non so come muovermi: ho paura di sprofondare ad ogni passo. Ho studiato come un pazzo per farle piacere, ho recuperato su tutti i fronti, sono stato promosso a pieni voti e il risultato è che adesso non ci vediamo più da settimane. "È solo questione di attendere il prossimo autunno", ha detto. In sintesi, sono un coglione. Il telefono squilla, cerco di non farci caso. Nessuno dei miei risponde. - Tereeeeesaaaaaaa! Stasera devo uscire con degli amici, fra cui una certa Erika che da qualche tempo mi tempesta di telefonate e mi chiama con dei nick gay tipo topo, topino, cazzate del genere. Storpia il mio nome con un diminutivo idiota, Manu. Odio i diminutivi, e poi il mio nome mi piace com'è. Non ho nessuna voglia di sollevare il ricevitore e di sentire la sua voce ciao Manu, che stai facendo di bello? Sono concentrato su un passaggio di chitarra assolutamente imprevedibile che sta cercando di restituire un po’ di senso alla mia vita. Non sapevo che il grande Tim avesse avuto un figlio così straordinario, è stata un'incredibile sorpresa per me scoprirlo. I'm not afraid to go but it goes so sloooooow... Il telefono non la pianta: mi alzo, deciso a rispondere o a spaccarlo. - Pronto. Il mio tono suona "fanculo". - Emmanuel? Trenta secondi di silenzio. - Ci sei? - Ciao, Antonia. - Hai da fare stasera? - No, niente, non ho niente di speciale in programma. - Ti andrebbe di accompagnarmi al cinema? Danno Il re leone al Lux. - Fantastico. Quando? - Al primo spettacolo. Ma forse devi cenare. - Figurati, non mangio, io non mangio mai. Cioè, non stasera. Dove ci vediamo? - Sotto casa mia. Va bene? - Perfetto. Ingoio le tonsille, riattacco e mi fiondo nell'ingresso. Poi torno indietro a raccattare il cuore. Forse sono troppo trasandato, dò un'occhiata allo specchio: no, va bene così; corro alla porta, mi ricordo improvvisamente di Tegame; rientro in camera, lo prendo sotto braccio e raggiungo mia madre che guarda la televisione in salotto. La miglior difesa è l'attacco. - Non devi guardare tutta questa robaccia, mamma. È spazzatura, ti fa male. Ciao, io vado. Si volta con aria interrogativa. - Dove vai? Alla festa di Gianluca? - Sì. - Ma non era dopo cena? - No, è alle sette e mezzo: hanno cambiato l'orario. È un po' seccata. - Non potevi avvisarmi per tempo? Avevo già fatto preparare la cena. Mi chino a darle un bacio. - Hai ragione, scusami. - E metti il cane nella cuccia. - Non aspettarmi alzata, eh: dopo cena andiamo al pub e poi in discoteca. Mi raccomando, non guardare quella roba da dementi. Ciao, non preoccuparti per il ritorno, mi accompagna a casa Max. La sento dire qualcosa mentre mi allontano di corsa. Povera mamma. Arrivo in anticipo, ma lei è più in anticipo di me: la trovo già sotto casa. Indossa un vestito turchese con un golfino color panna e una sciarpa intorno al collo, i capelli rossi sciolti sulle spalle. Non dice e non fa niente quando mi vede, come se fosse normale uscire insieme di sera, soli. Non ho il tempo di stupirmi: mi accorgo subito che qualcosa non va. Ha le occhiaie livide, malamente nascoste dal trucco. Come minimo non ha dormito. L'istinto, che con lei mi soccorre sempre, mi suggerisce un atteggiamento fraterno: la prendo sotto braccio e ci avviamo verso la macchina. Ovviamente guida lei, io non ho ancora la patente. Blatero senza sosta per tutto il viaggio: non ci vediamo da tempo e ho un sacco di cose da raccontarle, cose stupide di tutti i giorni che non vedo l'ora di condividere con lei. Ma lei è tutta concentrata sulla guida, manco fossimo a un rally, e risponde a monosillabi: è evidente che non ha voglia di fare conversazione. Sono troppo felice per risentirmene: se ha voluto vedermi è chiaro che sentiva la mia mancanza, per cui posso permettermi di chiacchierare a vuoto come un imbecille. Il cinema è pieno di gente: ci sediamo nelle ultime file. Continuo a parlare da solo per un quarto d'ora, poi le luci si abbassano e la proiezione incomincia. Il film è bello, ma la mia mente è tutta concentrata su di lei che se ne sta lì a braccia conserte, con gli occhi fissi sullo schermo. Comincio a chiedermi seriamente perché abbia voluto vedermi, dato che si comporta come se io non esistessi. Ad un certo punto mi volto a guardarla con aria interrogativa: trema un po' e ha le dita contratte; forse sta male. Le prendo una mano sussurrando cos'hai. Smette di tremare e appoggia la testa sulla mia spalla: - Non è niente, sto bene. Le circondo le spalle con un braccio. Rimando tutto a dopo e mi dispongo a godere della più egoistica beatitudine, abbracciato a lei nel buio avvolgente di un cinema, come in tanti miei sogni. C’è l’aria condizionata e lei ha le mani fredde: le prendo fra le mie, strofinandole leggermente ed accostandole alla mia bocca per riscaldarle con il fiato, come il bue e l'asinello del presepe. Ad un tratto rovescia la testa all'indietro e chiude gli occhi: mi sforzo contro ogni evidenza di interpretarlo come un gesto amichevole. Mormora sottovoce stronzo di un ragazzino e mi sfiora il collo con le labbra aperte. Da quel momento in poi i miei ricordi si fanno confusi: ricordo solo l’odore amaro dei suoi capelli e la temperatura altissima della sua pelle. All'improvviso, mentre solleva la mano destra per accarezzarmi i capelli, vedo un livido violaceo sul suo polso. Le prendo l'altra mano, le scopro il polso e vedo un segno uguale. Anche la sua gola è chiazzata di ematomi. Mi scosto bruscamente da lei: - Che significa? Non risponde. Si riavvolge la sciarpa intorno al collo e finge di concentrarsi sul film. Entro in una zona di vuoto pneumatico in cui non riesco a pensare più a niente: le immagini del film si accavallano nella mia mente senza che io riesca a seguire nulla della trama, distratto dal pesante pulsare del mio cuore. Dopo qualche minuto sento la sua testa appoggiarsi di nuovo sulla mia spalla, ma questa volta resto immobile. Cerca la mia mano, mi volto a guardarla: le sue occhiaie sono diventate viola, fanno impressione. Il mio cuore si serra in una morsa: stringo la sua mano sussurrandole va tutto bene, che cazzo sto dicendo. Le viene un attacco di tosse: dice che è colpa dell'aria condizionata, estrae delle pastiglie dalla borsetta e le ingoia. Dopo qualche minuto, o forse qualche ora, mi dice: - Ho bisogno di parlarti. Ci alziamo sul più bello della scena finale strappalacrime, fra le imprecazioni degli altri spettatori. Ha incominciato a piovere, le gambe mi tremano. Prego il Dio in cui non credo di darmi la forza. A tutt'oggi non so come finisca Il re leone. ... Guida da un’ora e non si decide a fermarsi. È intontita, deconcentrata, a un certo punto rischiamo di precipitare giù da un argine: mi accorgo che l'automobile sta sbandando e riesco a raddrizzare il volante giusto un attimo prima che ci ribaltiamo nel fossato sottostante. Stavo per ucciderti dice inebetita, come se sull'automobile non ci fosse anche lei. Cerco di rincuorarla, ma lei ripete più volte stavo per ucciderti e alla fine aggiunge non me lo sarei mai perdonato. Poi rimette in moto e si concentra sulla guida. Vedo diversi cartelli segnaletici con sopra nomi sempre più sconosciuti: l’ultimo dice Albugnano. Intuisco che non siamo più nel Torinese: siamo finiti in un’altra provincia. Arrivata ad un bivio mette la freccia anche se non c'è nessuno, svolta e imbocca una discesa. La strada è senza via d’uscita: rimango senza fiato quando di colpo mi vedo di fronte lo scheletro imponente di un’abbazia romanica. Lei non sembra sorpresa, forse perché non si accorge di niente. Parcheggia la macchina nel posteggio dell'abbazia e tira il freno a mano. Una scomoda utilitaria parcheggiata di notte in un piazzale deserto sotto la pioggia, con le rane che gracidano intorno: la situazione è tipica fino allo squallore. Provo un attimo di tremendo imbarazzo. Mi volto a guardarla: continua a fissare il volante come se si aspettasse qualcosa da lui. Alla fine trovo il coraggio di parlare. - Cos'è successo? - le chiedo. Non risponde. Insisto: - Mio fratello lo sa? Scuote la testa: - No. Non riesco a parlarne con lui. - Non ti ascolta, vero? Non vuole mai sapere le verità scomode. Fa segno si sì. - Vuoi provare a parlarne con me? - Non ce la faccio. - Come posso aiutarti se non mi dici niente? - Cerca di capire da solo, se puoi. Ci provo, ma è durissima. Deglutisco e pronuncio quel nome: - Frédéric? Tace: ho colto nel segno. Una serie di particolari sempre più realistici mi arriva dritta alla bocca dello stomaco. Vedo tutta la scena. Sto veramente male. - È un bastardo. Si torce le mani, disperata. - Non è lui il problema, non è lui. Mi assale un moto di rabbia. - Lo so, cazzo. - Sai cosa? - Che ti è piaciuto. Non è così? Si contrae tutta, come un’ostrica quando le spruzzi su il limone. Trema, batte i denti. Le prendo di nuovo una mano per non farla sentire sola, anche se mi costa un tremendo sforzo. Ho voglia di piangere e di prendere a calci qualcosa. Vorrei essere lontano da lei per poter stare male senza dover fingere. - Non riesco... - balbetta - non riesco più a... Sospiro: è così ovvio per me. - A farti toccare da un uomo. Fa segno di sì con la testa. - Ma puoi guarire. - Non credo - dice tremando tutta. - Certo che puoi. Vedi? Ti sto tenendo la mano. Sembra rilassarsi: respira più profondamente e smette quasi di tremare. Accenna ad un pallido sorriso: - È vero. Per te non provo disgusto. Si volta a guardarmi: all'improvviso scatta la sirena d’allarme. Mi scosto bruscamente da lei. - No, Antonia. Mi fissa con improvvisa angoscia: - Perché no? - Perché ti ho dato la mia parola, lo sai. - Emmanuel, non sopporto pietose bugie da te. Dimmi la verità. Gliela dico: - È che non ce la faccio, Antonia. Lo sai che mi piaci moltissimo, credo di avertelo dimostrato, ma dopo quello che è successo non ce la faccio proprio. Scusa, ma mi fai... - Schifo? - No, macché schifo. - Allora cosa? - Mi fai sentire una terapia alternativa. - In che senso? - Antonia, ma è possibile che tu non capisca? Tu vuoi solo sapere se ci riesci almeno con me. Mi stai usando. Non è il massimo come prima volta, eh. Si appoggia contro lo schienale. - Hai ragione. Scusami, non so come ho potuto. Si mette a frugare nella borsetta con le mani tremanti; penso che stia cercando le chiavi, che sono rimaste infilate nel cruscotto. Le giro senza parlare avviando il motore. Lei solleva il viso rigato di lacrime: - Grazie della premura: stavo solo cercando il fazzoletto. - Scusa, credevo... - Non importa, ti riporto subito a casa. Ingrana la marcia ed accenna a partire, ma mette la terza invece della prima e la macchina fa un balzo in avanti: il motore si spegne con un singhiozzo. Rimette in moto asciugandosi gli occhi con il dorso della mano sinistra tremante; ha la mandibola serrata ed è in apnea da diversi minuti. Non posso lasciarla sola in quell’abisso. Le mie barriere crollano di colpo. Spengo il motore e le soffio il naso con il mio fazzoletto. Trema tutta, oppone resistenza al mio contatto. Trattengo dolcemente la sua mano che respinge la mia e le faccio segno di no con la testa: non fare così, dai, lasciami provare. I suoi muscoli irrigiditi si rilassano, riprende a respirare ansimando: la avvolgo in un abbraccio, incomincio a cullarla e non parliamo più. Rimaniamo così, senza far nulla, per non so quanto tempo. La pioggia cade fitta con uno scroscio uniforme e il vetro dell'automobile si è appannato; è un momento bellissimo nonostante tutto. Lei è molto scossa, ho l’impressione che non connetta: trema ancora, e non di freddo. Fra i due, incredibile a dirsi, sono io il più lucido. Ad un tratto lascia cadere la fronte sul mio petto con la strana inerzia di una bambola di pezza. Le prendo la testa fra le mani e la fisso negli occhi. - Cos'erano quelle pastiglie? Il suo sguardo oscilla nel mio: è evidente che si trova in uno stato confusionale. - Quali? - Quelle che hai preso al cinema. Non erano per la tosse, vero? Non risponde. Mi incazzo moltissimo: - Cos'è, hai progettato un suicidio assistito con la scenografia della cattedrale gotica sotto la pioggia? - Romanica, - balbetta - e non potevo immaginare che piovesse, le previsioni davano bel tempo. - Vabbè, romanica, con o senza pioggia. E mi vuoi come complice? Tu sei pazza. Ti porto subito all'ospedale, non ho la patente ma so guidare. Spostati. La scosto bruscamente e faccio per prendere il suo posto, ma lei mi trattiene. - Non preoccuparti: erano solo un paio di innocui tranquillanti. Le stringo il viso fra le mani e la guardo con molta severità: - Non farlo mai più, capito? Mai! Annuisce come una bambina colta in fallo. Le parlo con dolcezza: - Adesso rilassati, sei molto stanca. Annuisce di nuovo e appoggia la fronte sulla mia spalla. - Però non so... non so se... - Non preoccuparti, faccio tutto io. Faccio tutto io, già. Qualche settimana fa niente mi sarebbe sembrato più naturale che fare l'amore con lei nell'erba, sulla sponda del fiume, immersi nell'innocenza della nostra Arcadia pedemontana. Lo desideravo da morire. Ora la situazione è completamente cambiata, senza contare l'ambientazione sacra, con quell'imponente abbazia che incombe minacciosa sul mio paganesimo, e non so se sarò all'altezza della mia spavalda promessa. Quello che so per certo è che devo provarci, e per farcela devo recuperare un po' di quell'ironia che rendeva speciale e adorabile il mio rapporto con lei. Cerco di rendere rassicurante il rituale prosaico che segue. La aiuto con dolcezza a liberarsi degli abiti. Non mi è facile cavarmela da solo in questa situazione: solo chi ha fatto l'amore in una Uno ed è alto più di un metro e ottanta può capirmi. Penso che poteva andarmi peggio, una Panda per esempio. Lei osserva i miei gesti tra l'affascinato e l'inebetito e non collabora assolutamente, anzi mi guarda stupita quando reclino il sedile. È come se questa cosa che lei stessa ha provocato le sembrasse di colpo impossibile; ha l’aria di stare guardando uno strano film. Quando tento di sbarazzarmi dei pantaloni ha una nuova crisi di pianto e si aggrappa a me, fermando la mia mano. D'accordo, le dico, facciamolo con i jeans, ma non credo che mi verrà tanto bene. Ride fra i singhiozzi, sei proprio scemo, mi avvinghia ripetendo frasi sconnesse, dimmi che non è successo niente ti prego mi vergogno vorrei morire e altre cose del genere, io le rispondo non devi aver paura, farò tutto quello che vuoi tu oppure non farò niente, lei balbetta non voglio che lo fai per forza, e se sbaglia i congiuntivi vuol proprio dire che sta male; allora la bacio sulla bocca e porto la sua mano a sentire che no, non è per forza, e non me ne frega più niente di chi c'è stato prima, perché adesso ci sono io. Le accarezzo i capelli finché non smette di tremare e il suo respiro prende il ritmo regolare della pioggia che cade. Fino ad un certo punto l’istinto mi suggerisce quello che la mia inesperienza non mi permette di sapere; poi improvvisamente ho un attimo di panico. Temo l’inevitabile confronto, temo di rendermi ridicolo. Lei se ne accorge subito. - Che c’è? - chiede. - C’è che non l'ho mai fatto - rispondo con semplicità. Mi accarezza il viso. - Lo so. Ma non preoccuparti, andrà bene comunque. Non penso più a nulla. Lei chiude gli occhi e la sua febbre pian piano aumenta, a un certo punto mi chiama amore ma non pronuncia mai il mio nome, non capisco neppure se si renda conto di essere con me, poi di colpo sussurra al mio orecchio ti voglio ed è come una scarica elettrica nella spina dorsale. Il momento è venuto. Ho un attimo di panico, poi spalanco le braccia e mi lascio cadere nel vuoto. Una vampa di calore mi spinge di colpo in alto, vedo lei laggiù in fondo sull’orlo di un incomprensibile terrore, non penso più a me stesso e neanche potrei perché non ci sono più, sono sparito in lei, sono lei, so esattamente tutto quello che le sta succedendo, so dove devo portarla e come, un vortice mi risucchia, ripercorro all’indietro tutta la mia vita e l’urlo della luce e nove mesi di dolcissimo nulla, lei non riesce ad uscire da quell’apnea di follia resta avvinghiata a me dice aiutami, il gorgo la inghiotte mentre io mi alzo, mi sollevo da terra, le mie ali robuste mi portano sempre più in alto, vedo sotto di me il campanile dell’abbazia e non voglio lasciarla sprofondare, devo portarla con me, poi finalmente il decollo, il volo, la vertigine, la bellezza tremenda del suo viso. Conto tutte le stelle della notte mentre atterro dolcemente e le dono quel che resta di me. Apre gli occhi pieni di lacrime: sei bravissimo sussurra. Ma non sono bravissimo, non sono niente. Voglio rivederla così altre cento, altre mille volte. Ho sedici anni, posso permettermi di ricominciare subito. Quando guardiamo l'orologio sono quasi le tre di notte; mi ricordo all'improvviso di mia madre, tutto mi sembra irreale. Verso le tre e mezzo mi lascia davanti al cancello di casa mia. L'ansia ha incominciato a rodermi e non smette finché lei non mi fa una domanda che aspettavo da un'ora: - Ti va se ci rivediamo ancora? Non so cosa le rispondo, ma dev'essere molto buffo, perché scoppia a ridere. Nella fretta ho dimenticato le chiavi di casa. Busso alla finestra della camera di Teresa; non dorme, viene ad aprirmi quasi subito. Mi guarda con rimprovero e mi dice di salire le scale senza far rumore. Le dò un bacio in fronte e salgo i gradini a quattro per volta. Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah... La vita sa essere meravigliosa.