Oggi Emmanuel sembra non avvertire la mia presenza: tiene Tegame per una zampa e guarda pigramente la luce del sole che filtra tra i rami. Fa di nuovo molto caldo e ha la camicia aperta; vedo il suo torace, solcato da un rigagnolo di sudore, sollevarsi e abbassarsi nel respiro. L’anno scolastico volge al termine e il mio compito può considerarsi felicemente concluso: lui ha riscattato tutti i suoi insuccessi e sarà senza dubbio promosso, anche se avrà un paio di sei in pagella. Michele è orgoglioso di me; ho ricevuto i complimenti della signora Helena e perfino quelli del taciturno ingegner Kellermann. Anch'io sono soddisfatta, ma non mi sento felice. Anzi, a dirla tutta sono triste: mi ero abituata ad attendere con impazienza il momento di salire sul suo scomodo motorino con Tegame in braccio per andare al fiume, fra scossoni, risate e continui rischi di cadute. Mi mancheranno i nostri pomeriggi all'aria aperta. C'è qualcosa di strano nel suo silenzio: ho provato a romperlo con qualche frase di circostanza, ma ha sempre lasciato cadere il discorso, come se seguisse il filo dei suoi pensieri e non volesse essere disturbato. Finalmente si decide a parlare: - È dura avere sedici anni. - Perché? Sei molto carino, avrai successo con le ragazze. - Può darsi. - Come può darsi? È un dato di fatto: guardati allo specchio. - Chissenefrega. E poi non mi sono mai impegnato a fondo con le ragazze. - E cosa aspetti? Sei grande ormai. - Non voglio che la mia prima volta sia con una qualunque. Poi scusa, perché dai per scontato che io voglia piacere alle ragazze? - Cosa vuoi dire? - Hai capito benissimo. - No, non ho capito affatto. - Com'è che sei diventata di colpo così poco perspicace? - Vieni al sodo. - È semplice: io piaccio anche ai ragazzi, e non escludo che i ragazzi possano piacere a me. C'è un mio compagno dell'ultimo anno... - Finisci la frase. - Niente, così. Lui è molto più interessante di qualsiasi ragazza che conosco. Mi assale un senso di sconforto. - Dimmi che stai scherzando, per favore. Sospira e si distende: - Lo sapevo. Quanti pregiudizi, prof. Non capisco: il suo diario parlava di una lei, non di un lui. Sento una fitta allo stomaco. Tento di sdrammatizzare: - È normale che tu piaccia ai ragazzi: hai lineamenti delicati, non hai ancora la barba. - Se è normale tanto meglio. Ma pure se fosse anormale, non cambierebbe niente. - Non mi piace che la pensi così, Emmanuel. - È strano che sia proprio tu a farmi questo discorso. - Se alludi all’omosessualità in Grecia, ti ho spiegato molte volte che aveva un significato diverso, culturale. - Sì vabbè, buonanotte. Si alza a sedere a gambe incrociate. - Ascoltami: o una persona ti piace per il suo corpo o ti piace per quello che è. Giusto? Mi hai fatto una testa così con l'eros platonico, ci mancherebbe che mi dicessi che è sbagliato. - E questo cosa c'entra? - Come cosa c'entra? Devo farmi piacere le femmine solo perché sono femmine? - Ho capito cosa intendi, ma non mi piace pensarti in questa situazione. A meno che non sia una tua esigenza profonda, nel qual caso... - Non sono finocchio, se è questo che vuoi dire. È semplicemente che le ragazze che conosco non sono interessanti; è imbarazzante quanto sono limitate le loro prospettive. - Non sono mica tutte così, le ragazze. - Si vede che le conosco tutte io. Mi sento personalmente offesa, ma cerco di non dimostrarlo. - Ne conoscerai altre - rispondo secca. - Quasi tutti gli artisti sono omosessuali o bisessuali, ci hai fatto caso? Ci deve pur essere un motivo. - Può darsi, ma in questo momento non ho voglia di parlarne. - Fai male: è sempre il momento di parlare di cose importanti, e questa per me lo è. Di sicuro non può essere un caso, non credi? - Thomas Mann potrebbe darti qualche spiegazione. - Dove? - Morte a Venezia. - Grazie, lo leggerò. - È un bellissimo romanzo, ma per qualche strana ragione l'ho detestato. - Ragione di più per leggerlo. - Vedo che ormai mi usi come bussola al contrario: ti orienti a colpo sicuro nella direzione opposta alla mia. - No, non è affatto così: lo leggerò anche per capire cosa ti ha dato fastidio. Dovresti sentirtene lusingata. - Mah, lusingata... - Non ho nulla contro l'omosessualità. Il punto se mai è un altro: qualsiasi abitudine sessuale è bella finché uno è giovane. Poi tutto diventa squallido. - Grazie, eh. - Non ce l'ho con te, prof. Posso chiamarti ancora prof? - Fa' pure, tanto lo sai che mi ha sempre dato fastidio. - Ma per fortuna la scuola è quasi finita, non dovrai sopportarmi ancora a lungo. Non come alunno, quanto meno. - Già, per fortuna. - E poi tu sei giovane. In realtà io stavo pensando a certe rockstar: tutto quel che facevano a vent'anni sembrava bello, anche se erano completamente fuori di testa; ora sono solo ridicoli. I più fortunati sono quelli che sono morti presto. - Non dire assurdità. - Si dice cazzate, non assurdità. Ma guardali, i sopravvissuti: banali quelli che si sono integrati, penosi gli altri. Non si rassegnano a invecchiare, sposano le top model, più sono vecchi e più si prendono ragazze giovani. Non si rendono conto di essere assolutamente patetici, uguali ai vecchi industriali che si comprano le mogli diciottenni. E si spacciano per alternativi. - Un giorno invecchierai anche tu, Emmanuel. - È proprio questo il problema: a sedici anni mi sento abbastanza tranquillo e posso fare quel che mi pare, ma non credo che sarò capace d'invecchiare bene. È una cosa che mi spaventa moltissimo. Scuote la testa e aggiunge amaramente: - Preferisco morire piuttosto che ridurmi così. - Non c'è nessun bisogno che tu ti riduca così: puoi anche diventare un adulto normale, non credi? - Cosa intendi per normale? Come mio padre e mio fratello? No grazie, non fa per me. Chiude il discorso. Taccio anch'io, perché non posso dirgli quello che sto pensando: so bene che Emmanuel non è fatto per seguire la strada dei normali e degli omologati; il fatto è che non riesco ad immaginare nessun futuro da adulto per lui, e questo mi fa paura: vorrei poter vegliare su di lui in qualche modo, ma non so come. Dopo qualche minuto ricomincia a parlare, con tono basso e grave. - Mio padre ha un’amante. Resto completamente spiazzata dalla sua uscita. - Ma che dici? - Per favore, non chiedermi come faccio a saperlo. Ne sono sicuro. Ho il batticuore e improvvisamente mi sento la bocca secca, rinuncio a replicare. Fulmineo come un flash mi attraversa la mente il ricordo di una strana sensazione, come di liquido viscoso e bollente, che qualche giorno fa in salotto ho sentito posarsi sulle mie gambe accavallate. Alzando lo sguardo ho incontrato gli occhi di suo padre: ho scrutato per un attimo i lineamenti belli ma stranamente sfatti di quel volto che doveva essere stato simile a quello di Michele e ho provato una sensazione di forte disagio. - Fortuna che la mamma è troppo distratta per accorgersene. Povera mamma, non ha ancora capito come sono fatti gli uomini ricchi. Non voglio diventare come lui, per nessuna ragione al mondo. - Non dire queste cose di tuo padre, Emmanuel. Lui ti vuole bene. - Anch'io gliene voglio, forse. - Forse? - Non lo so, a volte mi sembra di avere il deserto dentro. E comunque il fatto di volergli bene non significa che mi va di essere come lui. - Per adesso mi sembri molto diverso. - Grazie per essertene accorta, non ci voleva Sherlock Holmes. Si distende di nuovo nell'erba, riassorbito da qualche suo pensiero. Ho come l’impressione che mi tocchi, ma non si è mosso. Rimane in silenzio per parecchio tempo, poi butta lì con tono distratto una domanda che mi stordisce come un cazzotto in piena faccia: - È finita, vero prof? Balbetto a mia volta una domanda: - Finita cosa? - Lo sai che non ci rivedremo più. - Ma no, che dici? È solo questione di aspettare il prossimo autunno. - Quindi, se voglio rivederti, devo per forza fare schifo a scuola: è questo che mi stai dicendo? - Emmanuel, ci vedremo tutti i giorni a casa tua: sono la fidanzata di tuo fratello. Scuote la testa con un sorriso acido. - Quanto sai essere banale. - Banale in che senso? - Banale nel senso di banale. Ora mi sto irritando un po'. - Scusa, potresti chiarire il concetto? - Banale, squallida, scontata, ovvia. Gli amici di mio fratello, gli abusivi, la merda extracomunitaria, le Bahamas, la troietta del calendario... Ma come fai? Anzi no, chi sei? La maschera la porti con me o con loro? - Io non porto maschere. - No? Be', allora è peggio di quel che pensassi. Se sei davvero così non vali molto. - Meglio, non credi? Almeno non perderai tempo a rimpiangermi. - Invece sì. Vedi, è proprio questo il punto: tu sei vecchia, e non intendo in senso anagrafico, sei noiosa, sei borghese, sei prevedibile, sei la ripetizione di un cliché già stravisto, sei il concentrato di tutto quello che non ho mai sopportato nella vita. Ma ti rimpiangerò lo stesso. - Ti stai dando dell'idiota, Emmanuel, non so se te ne rendi conto. Mi rivolge uno sguardo gelido: - Non sono io l'idiota. Continua così, professoressa, e rotolerai per novemila anni. Si sdraia di nuovo con le braccia dietro la nuca. - Intorno e sotto terra - aggiunge con puntiglio. Si mette a fissare le nuvole. Mi sento profondamente depressa. - Emmanuel, non ho voglia di litigare con te. Non oggi, per favore. - Non oggi perché? Perché è l'ultima volta? Allora vedi che lo sai. - Voglio essere sincera con te: lo ammetto, è una maschera. Sono costretta a portarla per non essere tagliata fuori. Il vostro ambiente non è il mio, sono troppo diversa da voi. - Ecco, così va meglio. - La vera Antonia è questa. Si volta verso di me appoggiandosi su un gomito: - Questa, o quella che sta cercando di farsi scopare da Frédéric? Mi sento come una pallina schiacciata a terra da uno smash: il ragazzo sta giocando a tennis con la mia anima. - Non ti permetto queste basse insinuazioni. È solo un gioco, una piccola provocazione innocente, tutto qua. Torna a distendersi supino. - Stai giocando un gioco pericoloso, Antonia. - Pericoloso perché? - Perché Frédéric è pericoloso. - Ma non me ne importa niente di lui: la mia vita è serena, ho tutto quello che potrei desiderare. Perfino un fratellino. - Che sarei io, naturalmente. - Esatto. Scuote la testa: - Peccato davvero. Avrei dovuto conoscerti prima. - Prima di cosa? - Prima di nascere. Com’eri alla mia età? - Sono passati troppi anni, non me ne ricordo più. - Bugiarda. Te lo dico io: eri una ragazzina fuori moda, con le trecce e gli occhiali da vista. Di solito le ragazze come te sprecano la loro prima volta con un coglione che ha solo voglia di scoparsele, e questa roba la confondono con il grande amore, come Madame Bovary. Non rispondo. Continua: - Ti piacerebbe fare un rewind, riavvolgere la cassetta fino a quel punto e vivere quel momento come lo avevi sempre sognato? Continuo a tacere. - Perché non rispondi? - Ti diverti a mettermi in imbarazzo, vero? Io non mi sto divertendo affatto. - Però ti piacerebbe. - Sì, mi piacerebbe, ma la tua è un'inutile crudeltà: non si può tornare indietro nel tempo. - Non è detto che non si possa. Non dice più nulla. Dopo una decina di minuti il silenzio comincia a farsi pesante. - Hai la camicia strappata - gli dico, tanto per rompere l'imbarazzo. - Sì, è diventata scomoda, non riesco più a chiudere il colletto. Ma è quella del nonno, la porto lo stesso. - Non è la camicia che è diventata scomoda, sono le tue spalle che si sono allargate. Hai delle gran belle spalle. Sorride: - Tu sì che sai cogliere la spiritualità nelle cose. Rimane disteso a guardare il cielo. È di una bellezza purissima in questo momento, fa male agli occhi. - Emmanuel, è tardi. Credo che dovremmo… - Sì, credo anch'io che dovremmo. - Non sai cosa volevo dire. Si volta e mi fissa con una nudità disarmata nello sguardo. - Io lo so. Lo so da una vita. Sei tu che non te lo ricordi. Allunga una mano. Provo un dolore acuto al cervello. Un minuscolo ragno verde tesse un filo tra due steli d'erba, nel silenzio rotto dal gorgheggio di un usignolo. Mi sono sempre chiesta perché il canto di questo uccello generi in me uno stato di tensione e di disagio, un presentimento atroce, come le campane a festa la domenica. Il cuore mi si ferma in petto, allungo a mia volta una mano a bloccarlo. - Basta, ti proibisco di parlare. Ma lui non ha nessuna intenzione di parlare. ... Secondo Platone funziona più o meno così: c'è uno che ama e uno che si lascia amare. Quello che contiene in sé la bellezza è quest'ultimo: e proprio perché è bello e sa di esserlo, in genere non desidera, ma si sente già appagato. Soprattutto, non desidera qualcuno che desidera lui, perché desiderare significa sentire la mancanza di qualcosa, e quindi uno che desidera si qualifica da solo come un soggetto che manca di qualcosa. Non è attraente. Però, dice Platone, se l'amore dell'amante è vero, prima o poi funzionerà agli occhi dell'amato come uno specchio: lui si vedrà in questo specchio come lo vede l'altro, e finirà per innamorarsi anche lui. Di se stesso. Ma basta non dirglierlo... ... Improvvisamente lo specchio esplode, una scheggia mi si conficca nel diaframma. Mi alzo di scatto e mi allontano aggrappandomi alle piante come un'ubriaca. Crollo a sedere sotto un albero, faccio fatica a respirare. Che stai facendo, idiota? Lui mi raggiunge subito, s’inginocchia accanto a me e mi accarezza una spalla. - Perché scappi? Mi tiro indietro con uno strattone, evitando il suo contatto come se mi ustionasse: - Lasciami, mi disgusti. Vattene. Non voglio rivederti mai più. Sento i suoi passi allontanarsi. ... Il silenzio dura da troppo tempo: ne percepisco il suono innaturale. Di colpo sento freddo, ho paura. Mi alzo, corro a cercarlo, lo chiamo con il cuore in gola, ma non ottengo risposta. Ho lo stomaco serrato in una morsa, come in un incubo non riconosco i luoghi, perdo l'orientamento, non so neppure che ore sono, il sole è molto basso ormai. L'istinto mi dice di dirigermi verso il fienile di un vecchio cascinale abbandonato. Improvvisamente vedo Tegame accucciato ai piedi della scala a pioli. È mogio, tiene il muso appoggiato sulle zampe anteriori incrociate; muove appena la punta della coda quando mi vede: gli faccio una carezza sulla testa, profondamente rasserenata. Salgo gli scalini di legno, la mia gonna si impiglia in un chiodo, tiro con forza e la strappo. Finalmente in cima. Lui è qui, Dio sia lodato. Ricomincio a respirare. Raggomitolato come un porcospino, il viso nascosto sulle ginocchia piegate, si dondola avanti e indietro come i bambini autistici. Mi inginocchio accanto a lui. - Scusami, ti prego. - Vai via, vattene, vattene. Faccio per toccarlo, ma si ribella con violenza. - Non toccarmi, non vorrei darti il voltastomaco. - Ascoltami, per favore. Rimane in un torvo silenzio per qualche secondo; poi alza la testa e appoggia il mento sulle ginocchia: - Parla. - Tu non mi disgusti affatto, Emmanuel: non hai nessuna colpa di quello che è successo. Sono io che mi disgusto. - Non è successo: te ne sei andata prima. - Ma stava per succedere. È una cosa normale alla tua età, ma per me è assolutamente imperdonabile, non capisci? Alza una mano. - Alt. - dice con durezza - Vedo che ci sono delle cose importanti da chiarire, non ci siamo proprio capiti. - Ti ascolto. - Io non la voglio la tua cazzo di comprensione. So benissimo cosa stavo facendo e perché. Mi stai facendo sentire come il protagonista di uno di quegli squallidi filmetti erotici dove il nipote se la fa con la zia. Ma cosa credi, che io sia il solito adolescente con gli ormoni che gli battono in testa? Se la pensi così fai bene a odiarmi. Però ti sbagli, io so quel che voglio. E non credere che non pensi a mio fratello: mi dispiace, lo so che la cosa ti fa star male. - Tuo fratello non c’entra adesso: il problema siamo tu ed io. Mi sei stato affidato dai tuoi genitori, hanno avuto fiducia in me: avrei dovuto avere rispetto. - Perché, mi hai mancato di rispetto? - Certo che ti ho mancato di rispetto, ho mancato di rispetto a tutti: a te, a loro e a me stessa. Scuote la testa. - Allora è tutto inutile. - Inutile perché? Io ti voglio davvero bene, Emmanuel, non posso permettermi di perderti. - Perché dovresti perdermi? - Perché se mi comporto come una stupida ti perdo, non capisci? - Sì, capisco. - Sul serio capisci? - Capisco che è impossibile. - Cosa è impossibile? - Stare con te. - Certo che è impossibile: ci vorrebbe un miracolo. Tenta di sorridere. - I miracoli non li so ancora fare, ma forse con un po' d'impegno… - Pensi che potrai imparare? - Lo dici tu che con l'impegno si ottiene tutto, no? Comunque il miracolo più importante è già successo. - Quale miracolo? - Ti ho ritrovata. - Non ti capisco: spiegati meglio. - Eppure dovresti capire al volo: sei tu che mi hai spiegato Platone. Quando ti ho vista per la prima volta, quel pomeriggio a casa mia, ho sentito subito un gran sollievo. - Sollievo? - Déjà vu, professoressa. Ti ho già conosciuta, non so quando. Chissà chi eri, chissà chi ero allora, chissà come mi chiamavo. Di sicuro però ti volevo bene, mi sei mancata tanto. Esita un attimo, poi aggiunge: - Il tuo nome mi piace troppo, non so perché. Sorrido: - Forse ti chiamavi Ambrosio. - Che nome del cazzo. Perché Ambrosio? - Domani ti presto un libro, così capisci. - Un altro? Okay, se non altro stando con te mi farò una cultura. Mi scruta con un po' di apprensione: - Perché possiamo stare insieme almeno come fratello e sorella, no? - Certo che possiamo. - Hai detto che anche tu mi vuoi bene, no? - Sì, te ne voglio tanto. - Allora è tutto okay. Rimane per un po' in silenzio; poi dice: - Ti giuro che non succederà più. - Di te mi fido: è di me stessa che non mi fido. Ho combinato un grosso guaio, non sarà facile andare avanti come se niente fosse. - Ci penso io, non preoccuparti. - Non posso prevedere quali effetti avrà su di me questa cosa, mi fa paura. Mi prende la mano e la bacia affettuosamente. - Tranquilla, prof, hai la mia parola. Puoi fidarti. Sorride con un po' di ironia: - Sai come si dice, no? It takes two to tango.