L'aria, spazzata per tutta la notte dal vento, si è fermata nell'immobilità un po' inverosimile del cristallo: la spugna verde delle foreste sulle montagne lontane è visibile in ogni minima piega; più in alto si staglia, nitida, l'ossatura della roccia. Il fiume si è acquetato in una bonaccia liscia e placida, appena increspata da qualche luccichìo superficiale; di tanto in tanto si accendono nella valle bagliori di specchio. Seduta sulla sponda, con un libro sulle ginocchia, guardo dall'alto Emmanuel che sulla riva sabbiosa, scalzo, i pantaloni rimboccati fino al ginocchio, lancia pezzi di legno a Tegame; il cane si rizza sulle zampe posteriori per osservare la traiettoria del bastone, poi si tuffa nel fiume, nuota fino a raggiungerlo, lo riporta al padrone e ne riceve carezze e complimenti. Ora i due sono stanchi: Tegame si scrolla ripetutamente addosso ad Emmanuel, come d'abitudine, e comincia a rotolarsi nella sabbia, arandola con il muso; lui si siede sulla sponda del fiume e mi fa un cenno di saluto, mentre con una mano raccoglie le scarpe da ginnastica e con l'altra si pulisce i piedi dalla sabbia. Gli indico da lontano l'orologio. Annuisce sbuffando e comincia a risalire lungo la sponda. Lo guardo avvicinarsi in una festa di colori accozzati in modo assolutamente casuale: l'oro dei capelli, il blu degli occhi, la porpora delle labbra sorridenti, le righe orizzontali bianche e verdi della maglietta, l'azzurro dei blue jeans, i quadretti multicolori della camicia del nonno che usa come giacca. A giudicarlo secondo le convenzioni sociali lo si direbbe ridicolo: visto con gli occhi della natura è stupendo. Accanto a lui Tegame, grigio e irsuto, pare il fantasma di un istrice. Si lascia cadere nell'erba, appoggiandosi sui gomiti. - Cuccia, Tegame - intima al cane che tenta di asciugarmisi addosso. Lo accarezzo e ripeto l'ordine. L'animale si accuccia al sole ansimando, con la bocca aperta e la lingua penzoloni, una stolta espressione di felicità sul muso. Subito però si alza e si mette a rotolarsi a pancia in su sul cadavere di qualche bestiola, strofinando coscienziosamente la schiena sui fetidi resti decomposti. Emmanuel lo guarda perplesso. - Secondo te perché lo fa? - Credo che sia un riflesso condizionato: gli sciacalli si rotolano sulle carogne per mimetizzare il loro odore. - Quindi Tegame discende da uno sciacallo? - Eh sì. - Quante cose sai. Mi tolgo gli occhiali con gesto professorale. - Sono nata un po' prima di te. E poi ero una studentessa modello, io. - Senza allusioni, vero? - Senza allusioni. Sta' attento, ora lo sciacallo cercherà di trasmetterti il suo mimetismo odoroso strofinandosi addosso a te. - E perché? - Perché sei il suo padrone e vuole condividere tutto con te. - Puah. Gli lancia un bastone: il cane si allontana di corsa per recuperarlo e ritorna poco dopo con il pezzo di legno in bocca. Si accuccia e comincia a rosicchiarlo, tenendolo fra le zampe anteriori. - Puzza moltissimo: più tardi lo laverò. E comunque non è uno sciacallo. Solleva il viso infantile, che il leggero strabismo degli occhi e il broncio del labbro inferiore rendono un po' imperfetto, e perciò più affascinante. Gli metto davanti il libro: - Hai un quarto d'ora di tempo per ripassare il periodo ipotetico. - Latino o greco? - Greco, non vedi? Fra venti minuti esatti ti interrogherò, e se non lo saprai a memoria potrò essere molto vendicativa. - Cosa mi farai? - Probabilmente ti picchierò. Ci pensa su un attimo. - Potrebbe piacermi. Mi fa un sorriso sciocco. Lo guardo severamente. - Senti ragazzo, dobbiamo parlare. Si volta su un fianco appoggiandosi su un gomito. - Ti ascolto. - No, basta. Siediti composto. Obbedisce e si siede a gambe incrociate. - Lo sai, vero, che mi stai mettendo in condizione di non poter rispettare gli impegni presi con i tuoi? - Più o meno. - Più o meno un corno. Questo non è onesto da parte tua. Non approfittare del fatto che sei simpatico e che mi piace passare i pomeriggi con te. - Sono simpatico? - Abbastanza, ma non è questo il punto. - Sul serio ti piace passare i pomeriggi con me? - Non cambiare argomento. Non intendo continuare a illudere i tuoi: stiamo perdendo tempo tutti e due, e io ho anche altro da fare nella vita. - Scusami. - Non sei scusato. - Davvero non mi scusi? Ti giuro che non l'ho fatto apposta, e poi il periodo ipotetico lo so abbastanza bene. - Non sono cose che si possono sapere "abbastanza" bene: o si sanno o non si sanno. E adesso cerca di fare la persona seria e spiegami cosa non ti piace della scuola. - Farei prima a spiegarti cosa mi piace. - Non buttarla sul ridere, non sto scherzando. Non obbligarmi a concludere che sei solo un ragazzino viziato, cosa che peraltro non sembra corrispondere alla tua tipologia di adolescente. - La mia tipologia. Non sembra corrispondere. Hai un modo di esprimerti raccapricciante, professoressa. - Allora? Sto aspettando. Scuote la testa e accarezza Tegame. - Come faccio a spiegartelo? Non potresti capire, hai una mentalità da prima della classe. Tutt’al più posso descriverti le mie impressioni, se non ti arrabbi. - Fallo. - Okay. Freddo, muffa, cantina, ragnatele... - Continua pure. - Cadavere, tomba, claustrofobia, un ratto di fogna morto a pancia in su... - Ho capito, basta. - Secondo me a voi professori manca tutto quello che serve per essere vivi. Senza offesa, eh. - Perché dovrei offendermi? Non sono una professoressa. - Non capisco se ci siete o ci fate. - Il gergo adolescenziale con me non attacca: cerca di esprimerti in maniera più evoluta. E piantala con il voi, ti ho già detto che non sono una professoressa. - D'accordo, professoressa. Provo a riformulare il mio pensiero in modo più evoluto: non capisco se i professori siano così ottusi da pensare che studiare cose inutili sia importante, o se lo facciano soltanto per prenderci in giro. Così va meglio? - Molto meglio: hai costruito un periodo con cinque subordinate e una coordinata all'interrogativa indiretta. - Che cazzata: ho detto esattamente la stessa cosa mettendoci più parole. - La forma è sostanza: un giorno capirai. - Vedo che non hai capito, ma era ovvio. - Spiegati meglio, magari ce la posso fare. - Ne dubito. In sostanza, quando sono a scuola mi sento un marziano. Guardo i miei compagni che prendono appunti, fanno domande, alzano la mano per rispondere al posto degli interrogati, e mi sembrano tutti scemi. C'è qualcosa che non va nella mia testa. O nella loro. È un buffo ragazzo. Lo guardo con la massima severità consentitami dalle circostanze. - Primo: studiare cose inutili non è affatto inutile, anzi, è un’eccellente ginnastica per i tuoi neuroni, che si stanno autodistruggendo a un ritmo vertiginoso. - Perché proprio i miei? - chiede risentito. Mi scappa da ridere nonostante tutto. - Secondo: forse un po' di ragione ce l'hai quando dici che non è essenziale conoscere le lingue morte, anche se per entrare in sintonia con i grandi autori del passato devi leggerli nella loro lingua. - Eh, vedi? Allora non ho sempre torto. A me non interessa entrare in sintonia con loro. - Ne riparleremo fra qualche settimana. In ogni caso comprendere le radici della nostra civiltà è fondamentale per capire chi siamo, a meno che tu non preferisca vivere come un bifolco; nel qual caso faresti meglio a darti da fare, perché zappare la terra richiede un certo impegno, specie se si deve mantenere una villa con piscina. - Grazie di avermi rinfacciato la mia condizione economica. Come se me la fossi scelta io. - Però non fai nulla per evaderne, giusto? - Che ne sai? Sto evadendo come posso, dammi tempo: ho solo sedici anni. - Va bene, vedremo. Sono curiosa di vedere cosa farai a vent'anni: scommetto che ti iscriverai a economia e commercio. - Mi stai prendendo per il culo, vero? - No, perché mai? Ma continua pure il tuo ragionamento. - È finito, non sono un grande ragionatore. Comunque, pazienza gli autori greci, ma come fai a sopportare i latini? È tutto finto, è tutta retorica professoressa: non c’è sangue, non c’è sesso, non c’è emozione, non c'è niente di quello che serve per fare della buona musica. - Che c’entra la musica con il latino? - C’entra con tutto. Chiude il discorso e non sembra volerlo riaprire. Temo di essere stata troppo brusca con lui e cerco di rimediare. - Facciamo il gioco delle associazioni mentali, ti va? - No, è un gioco cretino. - Neanche per farmi un favore? - E va bene, dai: se è per farti un favore... - Rispondi a bruciapelo, senza pensarci su. Io dico un nome e tu rispondi la prima cosa che ti viene in mente. - Vabbè, comincia. - Archiloco. - Mercenario, scudo, la manina di Neobùle. - Saffo. - Donna brutta, il barcaiolo, il salto dalla rupe di Leucade. - Catullo. - Passero, Lesbia, Sirmione. - Lesbia. - Passeri, baci e sospiri. - Come immaginavo: è tutto da rifare. Domani cominciamo a leggere l’opera completa di Catullo partendo dal carme novantanove. - Perché proprio da quello? - Lo capirai domani. - Okay. - Dovresti smetterla di dire okay: si può dire la stessa cosa in italiano: "d'accordo", "va bene". - Okay, d'accordo, va bene. Si distende supino a guardare il cielo facendo il solletico sulla pancia a Tegame, che per un riflesso condizionato comincia a mimare con la zampa posteriore il gesto di grattarsi. Poi butta lì una domanda con tono distratto: - Di cosa ti occupi esattamente nelle tue dotte mattinate? - Sto facendo un lavoro che ti sembrerà mortalmente noioso: una collazione. - Colazione? - Puoi risparmiarti certe battute, ragazzino: sono vecchie come il cucco. - Non era una battuta, è pura ignoranza. - Collazione, con due elle: significa confronto. - È bello sapere che passi le tue mattinate a confrontare. E cosa confronti? - In questo momento sto confrontando l'originale greco di un poema astronomico di un tal Arato con le sue tre traduzioni in lingua latina. Trovo interessante la versione di Cicerone: l’ho citata proprio ieri in un articolo sull’uso delle cesure nell’esametro latino arcaico. - Pubblichi articoli? - Sì, su riviste specializzate. - Oh. Allora sei una persona importante. - Non prendermi in giro. - E poi? Dimmi, sono tutt'orecchi. - Poi la mia docente mi ha incaricata di verificare la rispondenza tra la trattazione astronomica di Arato e quella della sua principale fonte scientifica, Eudosso di Cnido. - E che cosa ne stai concludendo? - Che Arato era un incompetente. - Grandioso. E che altro fai nella vita, oltre a scrivere cose completamente inutili? - Tengo un lettorato completamente inutile. - Su cosa? - Sulla struttura metrica della parodia aristofanea di Euripide. Detto così sembra una noia mortale, ma ti assicuro che non lo è. - Ti credo per fede. Di cosa si tratta? - Eschilo nell'oltretomba dimostra a Euripide che nei suoi versi ci sta sempre bene una boccetta. - Questo sembra già meno noioso. - Aristofane è un genio. - Addirittura? - Sì. Te ne accorgerai studiandolo. - Sei così brava con la metrica? - Me la cavo, anche se a dire il vero c'è un verso che mi sta dando dei problemi: mi sembra uno ionico a maiore con anaclasi in ditrocheo, ma non ne sono affatto sicura. - È importante saperlo? - Da quale punto di vista? - Da qualsiasi punto di vista. Gli rispondo dopo un attimo di silenzio. - Nulla è importante, ragazzino. Si muore comunque. - Proprio perché si muore non bisognerebbe perdere tempo in cose inutili, non trovi? - Quali sarebbero quelle utili? - Non lo so, ma di sicuro non queste. - Coltivare la terra? Guadagnare un sacco di soldi? Fare il volontario della Croce Rossa? Girare il mondo in barca a vela? O cosa? Giusto per capire cos'è importante per te. - Lascia stare, ho detto una cazzata. - E poi non vivo solo di questo, faccio anche altro nella vita. - Tipo perdere tempo con me? - Esatto, anche questo. C'è solo una persona che potrebbe convincermi a dedicarmi a tempo pieno alla filologia: lo seguirei anche in capo al mondo, se solo mi dicesse "lascia tutto e vieni con me". - Gesù Cristo? - Non sei divertente, ragazzo. - Non prendere tutto sul personale. Dai, dimmi chi è questo tizio che seguiresti anche in capo al mondo. - Il professor Mostarda. - Cosa insegna questo professore, frittura delle patatine al McDonald's? - Sempre più spiritoso. Il professor Mostarda insegna filologia classica all'università di Lecce ed è un insigne storico dell'antichità. Farei qualsiasi cosa per lui, indagini assurde, ricerche noiose, lavori di compilazione... lavorerei gratis, mi ci trasferirei anche subito. - Così lontano? - Sì, senza rimpianti. Restare a lavorare qui non ha senso. - Perché? - Troppo lungo da spiegare. Fidati. - E mio fratello? - Tuo fratello mi conosce, capirebbe. Io non sono un tipo mondano, sto bene in mezzo ai libri e ai personaggi del passato. - Cioè in mezzo ai morti. - Sono molto più vivi della maggior parte delle persone che conosco. - Lo sai che hai più o meno gli ideali di una talpa, prof? - Se la pensi così smettiamo subito: non voglio infliggerti i miei ideali da talpa. - Ma no, che c'entra: mi fa piacere che mi aiuti, lo vedi che ci sto provando. È solo che, non so come dire, mi riesce difficile collegare una ragazza carina con cose così pallose. Resto per un attimo interdetta. - Se voleva essere un complimento t'è riuscito malissimo. Cosa dovrebbe fare secondo te una ragazza carina, l'attricetta in tv? Accalappiarsi un marito ricco? - Quanto al marito ricco direi che sei sulla buona strada. - Ora sei offensivo: non ti ha mai sfiorato l'idea che io possa essere innamorata di tuo fratello? - No, a dire il vero non mi ha mai sfiorato, ma credo che sia perché conosco mio fratello da quando sono al mondo: non è il tipo di cui s'innamora una come te. Mi alzo di scatto. - Va bene, basta. Se la metti su questo piano me ne vado, non sono disposta a farmi insolentire da un sedicenne. - Okay, okay, non te la prendere. - E piantala di dire okay: sembri la caricatura di Fonzie. - Chi sarebbe Fonzie? - Già, che stupida, come puoi saperlo? Dimenticavo che sono un relitto del Giurassico. Alzati, torniamo a casa. - D'accordo, ho capito, scusami. Mi sono espresso male, ho detto un sacco di cazzate offensive e maschiliste. Volevo solo capire qual è il tuo scopo nella vita, ecco tutto. Ti prego, mi scusi? Ci metto un attimo a decidere. Poi respiro profondamente e mi risiedo. - Ho un cervello, ragazzino: perché non dovrei coltivarlo? I maschi lo fanno da sempre e nessuno se ne chiede il perché. I maschi non devono mai giustificarsi. Il mondo continua a pensare al maschile: a parte la maternità, si direbbe che nessun altro tipo di creatività sia concesso alle donne. - E le quote rosa? - Che c'entra? Quelle sono un’idiozia: non è che una donna ha il diritto di ricoprire incarichi politici solo perché è donna. - Giusto, concordo. - Io parlavo di attività spiritualmente elevate: arte, filosofia, creatività non materiale. Hai mai riflettuto sul fatto che l’uomo procede in linea retta mentre la donna ripete sempre lo stesso ciclo? Da una parte la Cappella Sistina, dall’altra i pannolini sporchi da cambiare. Ecco perché la storia è maschio. - Se ti può consolare, professoressa, io sono maschio, ma di sicuro non lascerò nessuna traccia nella storia. E poi, sai chi se ne frega della storia. - Tu non fai testo, non sei mica normale. - Grazie, eh. - Sul serio: non è per niente normale a sedici anni starsene sempre in giro solo come un cane. - Con un cane. E poi non è vero che sto sempre solo: se mi invitano da qualche parte ci vado. - Ma non hai amici. - Vero: ho solo conoscenti. Sembro scemo, ma la capisco la differenza. - Cosa c'è che non va in loro? - È difficile da spiegare. - Provaci. Sospira e incrocia le braccia dietro la nuca. - Mi prendono per il culo. Prima perché ero troppo magro e avevo l'apparecchio per i denti, adesso perché ho i capelli lunghi, non porto i jeans di marca e non mi piacciono le cose che piacciono a loro. Ogni tanto mi danno del frocio. Per loro è un insulto. - Col tempo ti prenderai delle grosse rivincite, vedrai. Penso che diventerai un bellissimo ragazzo. - Dici? Può darsi, ma non è che cambi molto. Anzi, potrebbe peggiorare tutto. - Perché? - Perché non m'importa niente di quelle rivincite. Quello che gli altri considerano normale a me fa un effetto completamente diverso. Certe volte torno a casa che mi sento tutto ammaccato. - Ammaccato da cosa? - Da un sacco di cose. La vita picchia duro su di me. - Ti capisco. Si volta a guardarmi. - Davvero mi capisci? - Davvero. Appoggia di nuovo la nuca e sorride. - Questa è una bella cosa. - Adesso però studia. Non si costruisce un edificio senza calce e mattoni. - E se uno volesse costruire un igloo? Lo fulmino con lo sguardo e gli lascio cadere in faccia il libro aperto. - Ahia! Ma sei scema? - Zitto e studia. Si volta brontolando, si appoggia sui gomiti e s'immerge nel ripasso. Mentre raduno i suoi libri sparsi nell’erba mi incuriosisce la vista di uno spesso quaderno dalla copertina di pelle logora: lo prendo in mano senza aprirlo. Lui mi vede con la coda dell'occhio. - Me l’ha regalato il nonno - dice - È il mio diario. - Tieni un diario? - Per forza: prima di conoscerti non avevo nessuno con cui parlare. Questo è davvero un bel complimento. Poso il quaderno. - Puoi leggerlo, se vuoi. - Ma no, mi sentirei molto indiscreta. - Per te sono un libro aperto, lo sai. - Quanto sei scemo, Emmanuel. Sfoglio il diario provando uno strano brivido. A metà dell'agenda scorgo un brano intitolato "Tegame". Mi appoggio contro un tronco d'albero usando le ginocchia piegate come leggìo e tento di decifrare quella scrittura minuta e aggrovigliata da mancino. Possiedo un cane grigio di nome Tegame. Come cane non vale un gran che: se è intelligente non lo dimostra; è fifone, noioso, inespressivo come un pesce. Fisicamente assomiglia al telaio di una bicicletta. E' disubbidiente e nemmeno poi troppo fedele. L'ho comprato al mercato di Porta Palazzo, ma ai miei ho raccontato di averlo trovato per la strada. Era dentro a una gabbia, sporco e fetido, insieme con una decina di altri cuccioli tutti più belli di lui. L'ho notato perché, più che un cane, sembrava una grossa pantegana. Guardava inespressivo le persone e quando mi ha visto ha cominciato ad abbaiare. Sono passato oltre per andare a comprarmi un cd, ma al mio ritorno, appena mi ha visto, ha ricominciato ad abbaiare; quando mi sono fermato davanti alla gabbia ha smesso e ha cominciato a scondinzolare: così ho capito che voleva proprio me. Ho dato al venditore tutto quello che mi era rimasto in tasca e me lo sono portato via infilato in un sacchetto di plastica. Non mi dà nessuna soddisfazione: quando lo chiamo non obbedisce, ruba nei rifiuti, non sa comportarsi da cane civile, mi rosicchia tutto e ubbidisce solo se lo minaccio. Gli mancano gli istinti più elementari: non fiuta i pericoli, non è diffidente, non si difende, rischia continuamente di finire schiacciato sotto una macchina o sbranato dai cani più grossi di lui, di fronte ai quali non arretra mai; l'ho già fatto ricucire un paio di volte, le sue zampe sono tutte un rattoppo. Ama i gatti, ma i gatti non amano lui: un gatto di strada gli ha diviso il naso a metà e una delle due metà ha rischiato di staccarsi; per fortuna con un cerotto è andato a posto. Ha perfino tentato di allattare dei gattini abbandonati: se li è messi sulla pancia e li leccava come una madre. Per quanto possa sembrare strano, i gattini sono sopravvissuti. È un cane scolorito e molliccio, ha il pelo unto, opaco e puzzolente; lo lavo spesso, ma è tutto inutile: puzza sempre. Ha gli occhi tondi e vitrei, senza colore; da piccolo li aveva di un celeste magnifico ed erano la sua unica bellezza. Si è fatto un tesoro personale sotto un albero del giardino: ha raccolto tutte le pigne che è riuscito a trovare, uno straccio, un paio di fondi di bottiglia, un pezzo di carta stagnola e un passero morto; passa metà delle sue giornate a fare la guardia al tesoro e a rosicchiare le pigne. L'altra metà la passa ad abbaiare ai passanti, e sulla schiena gli si rizza una strana cresta di pelo perché ha paura che reagiscano: è uno strano incrocio fra un temerario e un codardo. È un essere disgraziato che esiste e sopravvive per errore, uno sbaglio della natura: ed è proprio per questo che gli voglio bene. Non mi dà niente, forse nemmeno affetto; ma a me basta vederlo vivere, essere vivo e felice grazie a me. Questo mi ha fatto riflettere sul senso dell'amore. Io non m'innamorerò mai di una ragazza bella e fortunata. Potrei innamorarmi alla follia di una donna mediocre, non nonostante quello, ma proprio per quello: per vederla vivere, ridere, essere felice grazie a me. Sì, ne sono sicuro: se mai m'innamorerò, m'innamorerò di una perdente. Chiudo il diario. Lo osservo a lungo mentre termina il ripasso sdraiato nell'erba, con le tempie appoggiate sui pugni, le ginocchia piegate e le caviglie incrociate. È uno strano ragazzo. Alla fine alza la testa. - Sono pronto - dice porgendomi il libro. Mentre lo sfoglio lui si alza e si sgranchisce le gambe saltellando, come per allenarsi in vista dell'interrogazione. Poi di colpo si accovaccia accanto a me e mi dà un bacio sulla guancia. - Perché? - gli chiedo. - Così, non c'è un motivo. Sono contento. - Anch'io. E lo sarò ancora di più quando mi avrai ripetuto a memoria il periodo ipotetico.