Onnipotenza Quella notte dormimmo così, abbracciati come fratello e sorella. Non mi costò alcuno sforzo reprimere i miei istinti sessuali: erano letteralmente azzerati. Verso le cinque ci alzammo e raggiungemmo i nostri mezzi di trasporto senza dire una parola. Antonia aveva un volto spettrale nella luce dell'alba, segnato da profonde occhiaie, tanto che ne fui quasi spaventato: "Tranquilla, - le dissi meccanicamente - ci rivedremo tutti i giorni a casa mia." Lei scoppiò in un pianto dirotto, fece segno di sì con la testa e mi strinse in un abbraccio disperato. Cercò di baciarmi, ma allontanai le labbra e la guardai con espressione di blando rimprovero. Poi saltai sul mio motorino e tornai a casa. A scuola non riuscii a capire una sola parola di quello che dicevano i professori: la mia testa era piena di uno strano ronzio, come un nido di vespe in pieno agosto. Dopo pranzo mi chiusi in camera e mi misi ad ascoltare musica a tutto volume. Quel maledetto pomeriggio di fine settembre qualcosa si era rotto in me, forse il cordone ombelicale che mi teneva attaccato alla vita, e io vagavo diverso e sconclusionato come una marionetta ubriaca. Il mio rapporto con lei era la sintesi perfetta del nonsenso della vita: un valzer nella nebbia, un volo orizzontale nel buio senza radar, alla cieca. Il male che mi aveva fatto marciva dentro di me ed io non riuscivo a perdonarla. Era come un’ustione nell’anima, bruciava maledettamente. Ma sopportavo in silenzio, aspettando il momento della rivincita. Avevo detto ad Antonia che era finita, ma non poteva finire così: era un epilogo troppo squallido, in cui io avevo il ruolo dell'idiota, perdente su tutti i fronti. Un minimo di riscatto era dovuto al mio personaggio, quanto meno per l'inutile passione che avevo messo nell'interpretarlo. A posteriori, dottore, posso dirti che ho cambiato radicalmente idea su quel periodo: per quanto tremendo, era pur sempre un modo per sentirmi vivo. Se potessi tornare indietro sceglierei di soffrire le pene dell'inferno piuttosto che affrontare il marasma insensato che mi attendeva; eppure all'epoca ero così stupido da considerare più importante la vendetta. Il fatto è che non si può immaginare quanto possano essere gravi e irrimediabili certi errori, prima che la vita ti abbia dato qualche memorabile lezione. La scuola era ripresa da un pezzo e dovevo esclusivamente alla sua ostinazione il fatto di riuscire a trascinarla avanti in qualche modo: mi stava alle costole come un mastino. La messinscena dei nostri pomeriggi al fiume aveva perso per me ogni attrattiva: ci andavo raramente, da solo, o meglio in compagnia di Tegame. Per lo più rimanevo a casa, nella mia stanza, tenendomi il cane sulle ginocchia e voltandole le spalle mentre studiavo, per farle intendere nel più chiaro dei modi che non avevo più bisogno di lei. Raramente chiedevo il suo aiuto: giusto l'indispensabile per costringerla a restare in camera, a parte il fatto che non se ne sarebbe andata per nessuna ragione al mondo: io le ero necessario come l'aria che respirava. Rimaneva seduta vicino a me per ore, immersa nella lettura dei suoi testi astrusi e nella preparazione dei suoi articoli universitari. Tenevo di proposito la porta aperta, per non insospettire Teresa e i miei e anche per farla spaventare un po', come se non ci fosse più nulla da nascondere. Era bello osservare con la coda dell'occhio quanto la cosa la allarmasse, sebbene tentasse di dissimulare: a tratti le tremava la mano mentre scriveva sul suo quaderno, probabilmente senza capire un'acca di quello che stava scarabocchiando. Ma poi chiudevo i libri e la porta, mi voltavo a guardarla senza dire nulla e il gioco ricominciava. Sapere che lei mi amava, sia pure nel suo strano modo, mi dava un enorme vantaggio. Era evidente che si fidava ciecamente di me, e questo mi dava un potere assoluto su di lei. Mi ero sempre guardato dall'esercitarlo per rispetto nei suoi confronti, ma ora il rispetto era andato a farsi benedire: perciò saltai il fosso e cominciai a strafare. Ormai la conoscevo così bene da prevedere tutte le sue reazioni fisiche; potevo provocarle, imporgliele, imporle anche i tempi se bisognava fare in fretta. Come tutti gli intellettuali, lei non aveva nessuna difesa contro la sua animalità: i suoi tentativi di razionalizzazione erano semplicemente ridicoli. L'avevo sempre saputo, ero io il più forte, l'avevo in pugno. Un senso di onnipotenza si era impadronito di me. Inventavo per lei giochi sempre nuovi, escogitavo segni convenzionali per essere certo di controllarla anche in sua assenza. Quando non potevamo vederci, tre squilli di cellulare ad una certa ora la avvertivano che stavo pensando a lei; sapevo che non avrebbe potuto fare a meno di mettersi telepaticamente in contatto con me e di provare le mie stesse sensazioni, perché il mio corpo era il suo, ero in grado di trasmettergliele anche a distanza, dovunque fosse, con chiunque si trovasse. In questo modo ero sempre con lei, giorno e notte. Intanto il mio disgusto cresceva in modo esponenziale. Mi pesava ogni giorno di più l'idea di mescolare le mie secrezioni fisiche con quelle di qualcun altro, fosse pure mio fratello. La tempestavo di domande indiscrete mentre facevamo l'amore: volevo sapere quante volte lo aveva fatto, e quando, e dove, e come, e cosa aveva provato. Non mi accontentavo di risposte generiche: volevo conoscere ogni minimo dettaglio dei preliminari, quale posizione avevano scelto, quanto era durato esattamente, quanti orgasmi aveva avuto, di quale durata e intensità, quanto le era piaciuto da uno a dieci, e se rispondeva tre non ci credevo e m’incazzavo, e se rispondeva nove le dicevo sei una troia. Lei era sempre più spaventata, non sapeva come placare la mia follia distruttiva. A volte scoppiava a piangere come una bambina, e allora la baciavo e la rassicuravo, le dicevo brava, devi essere sincera con me, non avere paura, puoi fidarti, non devi nascondermi niente, niente. E mentre le rivoltavo l'anima come un guanto provavo una nausea fredda e inesorabile. Cercavo continuamente il modo di ferirla, mi dava uno strano piacere. Non sono un sadico e ricordavo di averle voluto bene: mi ripromettevo quasi quotidianamente di restituire un senso più alto al nostro rapporto, ma per il momento prevaleva in me l'istinto di sperimentare fino in fondo il mio potere. A questo punto devo aprire una parentesi, dottore. Quello che comunemente s'intende per amore è una patologia psichica, una forma di squilibrio mentale: se così non fosse non si capovolgerebbe di punto in bianco nel suo opposto, non si trasformerebbe da un giorno all'altro in odio, o peggio in indifferenza. All'improvviso di quella persona, che prima era tutta la tua vita, non t'interessa più nemmeno sapere se è viva o morta, e non ti soffermi neppure a chiedertene il perché. Come tutti gli squilibrati, l'innamorato è anche terribilmente pericoloso: un amante tradito odia la persona amata, desidera il suo male, può arrivare ad uccidere "per amore". Non capisco perché questa idiozia venga esaltata nella letteratura, nelle canzoni, nell'arte, occupi tanto spazio in tv, nei sogni e nei desideri della gente; non capisco perché ai ragazzi si insegni a difendersi dall'alcol, dalla droga e non dall'amore. I filosofi greci, a parte Platone, lo sapevano bene; anche Flaubert lo sapeva, anche Tolstoj. Noi non lo sappiamo più, e questo a mio parere è grave. Ho l'impressione che oggi, al posto degli adulti, ci siano dei bambini decrepiti che giocano alla vita e pretendono di fare gli educatori. Never trust an adult. Antonia era una di loro: guai a fidarsi di lei. L'ultimo vero adulto che ho conosciuto è stato mio nonno. Non che gli adolescenti siano meglio, ma per lo meno hanno l'attenuante di essere ancora in evoluzione: io sono pienamente consapevole di essermi comportato male con lei, dottore, ma ero davvero giovane e molte cose non le avevo ancora capite. Antonia incominciava ad avere paura di me. A tratti si riscuoteva come da un sogno, mi diceva basta, tremava come se avesse freddo. Accennava ad andarsene, ma poi ricadeva a sedere come inebetita: non riusciva ad allontanarsi da me. Appoggiava la fronte sulla mia spalla in segno di resa, pronunciando sottovoce il mio nome e chiedendomi per favore di smetterla. Ancora adesso ricordare quel suo sussurro mi causa un brivido lungo la schiena. Era troppo orgogliosa per chiedermelo, ma sapevo che aveva bisogno di essere abbracciata: sentiva che mi stavo allontanando da lei, che le ero vicino solo fisicamente. Quelle sue mute richieste di aiuto mi davano un senso di lacerazione così profondo che per un attimo dimenticavo ogni rancore: la avvolgevo nel mio maglione, le mettevo in braccio il mio cane e li cullavo entrambi sussurrando va tutto bene, finché non smetteva di tremare e si addormentava. Io rimanevo sveglio e ascoltavo le voci della natura, il suo respiro regolare, il battito del mio cuore. Oh se fosse stata una bambina cieca, sordomuta, una povera deficiente da cullare per sempre così. Ora non stupirti di quello che ti dico, dottore: questo è il più puro ed intenso dei miei ricordi, l'unico che associo all'idea della beatitudine eterna. Ma di colpo piombava nella mia mente un'immagine ossessiva, sempre la stessa: lei distesa sotto di me sul pavimento di piastrelle azzurre ad occhi chiusi, lei che immaginava i suoi capelli neri al posto dei miei, che graffiava le sue spalle muscolose al posto delle mie di adolescente, lei che si lasciava insultare, fare del male e intanto ripeteva sì in crescendo vertiginoso, tanto che alla fine dovevo premerle un asciugamano sulla bocca per impedirle di gridare il suo nome nell'orgasmo. Sentivo distintamente lo schianto della mia anima. Avevo sempre accettato la fisicità di Antonia come un dato di fatto; ora invece era come un ragno, un disgustoso ragno nero fra noi, e un impulso irrefrenabile mi induceva a schiacciarlo. Dovevo soltanto trovare il modo, il momento, l'occasione; e finalmente l'occasione arrivò. - Ieri Frédéric è stato qui - le dissi una sera, senza alcun nesso con quello che stavamo facendo a letto. - Perché me lo dici? - Niente, così. Era con una ragazza. Non rispose nulla. - Molto bella - ripresi - Capelli lunghi, alta, seno stupendo. E poi giovanissima: avrà avuto più o meno la mia età. - Una volta non eri così sensibile a questo tipo di fascino femminile. - Io forse no, ma lui a quanto pare sì. E poi sai, crescendo si cambia. Bel colpo, messo a segno con eleganza. Il giorno dopo si rifiutò di vedermi; le telefonai verso le dieci di sera: non era in casa. La feroce gelosia che provai per tutta la notte mi rese particolarmente spietato. Il pomeriggio seguente, mentre stavo preparando con lei un'interrogazione, mi circondò affettuosamente la vita con un braccio e si appoggiò alla mia spalla, come faceva spesso. Subito si tirò indietro. - Hai uno strano profumo - disse. - Può darsi: ieri sera sono uscito con un'amica e poi non ho fatto la doccia. Non disse nulla. - Non contare su di me oggi, - aggiunsi - ho un fastidioso mal di schiena. Sai, se non si fosse capito, non siamo semplicemente andati a prendere un gelato. Chiusi il libro ed assunsi un'espressione seria. - Volevo parlartene, Antonia. È la prima volta che ti tradisco ed è giusto che tu lo sappia. Lo sai che sono sempre stato sincero con te. Lei continuava a tacere. - Immagino che tu voglia sapere com’è andata. Tutto sommato non male, direi. La parte migliore sono stati i preliminari. Il resto è stato piuttosto faticoso, la signorina aveva qualche problema di frigidità. Ma nel complesso sono stato bravo: puoi essere orgogliosa di me. Non disse nulla. Chiusi il discorso con un tono tra l'annoiato e lo spazientito: - Be'? Cos'è questo silenzio? Non facciamone un dramma: in fin dei conti non ho fatto altro che mettermi sul tuo stesso piano. Uno schiaffo violentissimo mi fece quasi cadere dalla sedia. Mi raddrizzai stordito. Lei mi scrutò a lungo da qualche remota lontananza, come chi rivede una persona cara dopo molti anni e stenta a riconoscerla. Volevo dire qualcosa, volevo spiegare, ma lei s'era alzata ed era uscita. Corsi nell’ingresso: Teresa mi comunicò che la signorina Antonia se n’era andata senza prendere la borsa. Sentii il rombo della sua automobile in giardino, le gomme che stridevano sull’asfalto della strada. Tornai in camera e mi appoggiai allo schienale del letto. Stavo sbagliando tutto. Ma non poteva fare a meno di me: sarebbe ritornata. Quanto meno a riprendere la borsa.