L’ultimo viaggio di Emmanuel Parte III La luna e l'asino Luce. Fitta lancinante. Buio. No, non sono morto: se fossi morto non sentirei questo terribile dolore alla testa. Cerco di sollevarla, ma ricado all’indietro. Mi tasto cautamente ogni parte del corpo: sembra che non ci sia niente di rotto. Esco lentamente, con fatica, dalla bmw: la parte anteriore è un ammasso di lamiere. Papà non sarà contento stasera. Cos'è successo? Di colpo la strada s'è arrotolata su se stessa e ha fermato la sua corsa contro il guard-rail, sbalzandomi poi contro un albero. Comprendo di avere trascorso qualche ora in stato d’incoscienza. L’orologio si è bloccato sulle sette; guardo in alto: il sole è scomparso dietro l’orizzonte, devono essere almeno le nove. La strada è deserta, non ci passa nessuno, non ci sono cartelli segnaletici e i fitti alberi che fiancheggiano la carreggiata mi impediscono di vedere oltre. Il cellulare è in pezzi: non posso chiedere aiuto. Camminerò finché non troverò un paese, una casa; dovrà pur esserci qualcuno in questo cazzo di posto. Mi incammino zoppicando leggermente: la mia caviglia destra è gonfia, il naso comincia a sanguinarmi; avanzo con la testa rovesciata all'indietro tenendo il fazzoletto premuto contro le narici per una decina di minuti, finché l'emorragia non si arresta. L’aria è irrespirabile, opprimente, per nulla rinfrescata dal crepuscolo inoltrato: mi tolgo la giacca, mi slaccio la cravatta e sbottono la camicia macchiata di sangue, ma nonostante tutto continuo a sudare. Guardo il cielo: il vento ha trascinato le nuvole giù dalle montagne, un materasso nero; c’è l’afa stagnante che prelude ai temporali estivi, quando la notte scende senza portare sollievo e non spira un alito di brezza nell’aria appiccicosa. Sono immerso in un inchiostro grigio che sta per diventare nero di seppia. Non c’è nemmeno un lampione in questa strada e sono solo come un cane. Nel silenzio innaturale un fruscio mi fa trasalire: mi volto col cuore in gola, non vedo nessuno. Le vene del collo incominciano a pulsarmi. Formulo un pensiero abbastanza lucido: tutto è ancora possibile, ma per combattere bisogna restare vivi. Sento le mani di Michele stringermi le spalle: coraggio, fratellino. Ricomincio a camminare. Con sollievo mi accorgo di essere arrivato alla fine della salita, ma è quasi buio e non si vede altro che un bivio; due strade si aprono davanti a me: una, più ampia, procede in discesa perdendosi all’orizzonte, l’altra, poco più di una mulattiera sterrata, scompare nella penombra inghiottita dal bosco. Provo un tremendo effetto déjà vu. Dolorante e spossato, con le ginocchia tremanti, mi siedo su un paracarro senza saper dove andare. L’atmosfera si fa perfettamente immobile, tutto tace in attesa: un diffuso e muto chiarore scocca dietro le nubi compatte, seguito dal sordo rullare del tuono. Una folata di vento caldo mi investe: tendo la mano a ricevere la prima goccia dell’acquazzone. Una grandine di gocce grosse come nocciole comincia a picchiettare, sollevando un intenso profumo di polvere bagnata. Non cerco riparo sotto un albero, ho sempre avuto il terrore dei fulmini; rimango seduto come un ebete sotto la pioggia battente. Sento il fischio di un treno nelle orecchie, la testa mi dà delle fitte lancinanti. Comincio a rendermi conto di avere preteso troppo dalle mie forze. Devo trovare qualcuno, chiedere aiuto. Lo farò tra poco, dopo: ora sono troppo stanco, ho bisogno di chiudere gli occhi, riposare, dormire. Sento, lontanissimo, il rintocco regolare di una campana a morto. Scivolo a terra col viso nel fango. L'orchestra accorda gli strumenti e attacca la Cold Song del King Arthur, un clavicembalo improvvisa nel mio cervello una fuga di schegge impazzite, il déjà vu del futuro. Emmanuel. Qualcuno alle mie spalle mi chiama, è Arianna vestita da sposa: sorride e mi tende la mano, attento mi sgualcisci la gonna, io trentenne bellissimo rido e parlo di donne con gli amici in piscina, lei eternamente giovane grazie allo zio chirurgo estetico gioca a canasta con le amiche, mi guarda entrare in cabina, annuisce indulgente mentre io strafatto di coca slaccio il reggiseno a un’amante occasionale, la mia freddezza prossima all'impotenza mi rende violento e questo si sa piace alle donne, le tappo la bocca, sta’ zitta ci sentono, guardo l’orologio, perché è così in ritardo, il serpente esce dal tombino mal chiuso, ciao frocetto e mi azzanna le vene, schizzo fiotti di porpora sulle piastrelle azzurre colo liquefacendomi mi aggrappo a un vecchio salvagente a forma di mucca grido senza voce ma lei se ne va sorridendo, accompagna a scuola un bambino biondo, lo scarico mi risucchia sto per affogare, una mano mi tira su per la collottola, riemergo sputando cammino a tentoni nella fogna l'acqua sale cammino più veloce ma il livello continua a salire, mi affianca il cadavere di una pantegana con il collo squarciato, scappa Emmanuel, scappa più veloce che puoi, i liquami sono all'altezza del mento il fetore è insopportabile sento una trombetta dietro di me, Duffy Duck mi sorpassa, ehi ciao bello ci vediamo all’autogrill, attento Emmanuel c'è qualcuno alle tue spalle, è Ben Hur che guida contromano, il cavallo nero s'impenna la biga si ribalta mi accorgo all'improvviso di aver dimenticato qualcosa d'importante e lo chiedo all'auriga che sordo impazzito frusta a sangue un ronzino bianco. Apro gli occhi: quanto tempo è passato? Il vento ha spazzato via le nuvole ed è apparso, nell’alabastro luminoso, il disco opaco della luna piena. Per un attimo di sospeso, estatico stupore, non penso più a nulla. Ricordi, brandelli di parole si affacciano alla mia mente. Regina del cielo, con qualunque nome... Mi alzo da terra e mi inginocchio. La giacca fradicia cade a terra, la cravatta di seta scivola nel fango. Mi sfilo la camicia con rituale lentezza. Dammi pace e riposo, fa’ scomparire quest’orrido animale, restituiscimi al me stesso che sono; e se non mi è lecito vivere, mi sia concesso di morire, almeno! La notte tiepida avvolge come un mantello le mie spalle nude, su cui si riflette il candore irreale dell’astro. Alzo le braccia al cielo e respiro la sua luce trasparente. Il fango odora di muschio e lumache, invitandomi al suo abbraccio. Vedo il bosco vacillare, rovesciarsi, la luna piombarmi addosso. Rendo grazie, poi non sento più nulla.