L’ultimo viaggio di Emmanuel. Parte II. Alla ricerca di me stesso. Sto guidando alla cieca da più di mezz’ora: finalmente non riconosco più nulla; vedo un cartello, c’è scritto Schierano, che cazzo di posto è. Svolto in uno sterrato che si perde tra i vigneti ed emergo fra due quinte di colline; lo scenario che si apre di fronte a me è di una bellezza mozzafiato: filari di vite a perdita d'occhio che disegnano diagonali perfette sui fianchi delle colline ravviati come da un pettine, sui colli contrapposti due chiesette gemelle rivolte l'una verso l'altra che sembrano parlarsi da lontano, poco al di sotto un grande cascinale ombreggiato da un maestoso platano, in secondo piano due castelli antichi di cui uno con le torri merlate, sullo sfondo la cornice delle Alpi velate da una leggera bruma da cui emerge la piramide surreale del Monviso, che proietta la sua sagoma inquietante contro uno sfondo di un grigio trasparente. La sera mi avvolge nella carezza dei suoi profumi e l'orizzonte arrossato dal tramonto mi si apre di fronte lontano, infinito, a perdita d'occhio. Questo posto è perfetto per viverci o per morirci. Ho voglia di ascoltare qualcosa, non so cosa. Accendo l’autoradio: la stazione trasmette una vecchia canzonetta degli anni Ottanta che danza sul filo del rasoio in bilico tra stupidità e autoironia, Enigma. Non ho mai sopportato questo genere di musica, ma scopro che è perfetta per uno che si trova nel mio stato confusionale: mi fa sentire meglio, mi conforta. Alzo il volume al massimo e mi lascio coinvolgere da quei suoni elementari, da quelle liriche dozzinali e ammiccanti, mentre guido zigzagando ai cento all’ora per le strade collinari: queste curve a gomito non mi consentono di andare più veloce, non sono un pilota di rally, anche se non mi dispiacerebbe. Spero di non incontrare una pattuglia di carabinieri: mi ritirerebbero la patente, e con ragione. Sono completamente ubriaco, anche se non so di cosa, avendo bevuto solo la spremuta d’arancia che Antonia mi ha preparato prima di mandarmi via. Aveva un sapore disgustoso, amarissimo, ma credo che fosse quello delle mie lacrime, che ingoiavo per non fargliele vedere, mentre lei dava la pappa a Martino che mi fissava imperturbabile scrutando con sguardo critico la mia strana espressione. Quel bambino non mi assomiglia, non sa cosa sia la pietà. No, non ha preso da suo padre. Give a bit of mmh to me you're a mystery And I'll give a bit of mmh to you… La vita è strana: non avrei mai pensato di poter trovare conforto in Amanda Lear che mi invita a darle un po’ del mio mmh e a prendere un po’ del suo, ma lo sta facendo in un modo così adorabilmente ironico che lo farei volentieri: non avrei nulla da perderci, arrivati a questo punto. Tutti i miei punti di riferimento esistenziali sono saltati, tanto varrebbe riuscire a divertirsi. L’ambiguità del personaggio mi richiama immediatamente alla mente Michelle: dov’è, cosa le è successo? Perché sto male al pensiero che lei stia male? Ho chiuso con il passato, non ha senso starci male. Dovrei star male per Arianna, per quello che le ho appena fatto, dovrei… Ma non sento niente, niente di niente, se non questa musica e il suo ritmo dance che mi fa scorrere il sangue nelle vene e mi fa desiderare di essere di nuovo in quel letto a fare delle cose molto strane, magari in compagnia di Carlos. Give a bit of mmh to me And I'll give a bit of mmh to you it's so confusing… Sì, sono decisamente confuso. Che diavolo mi sta succedendo? Non è possibile che io ascolti questa roba e nutra certi pensieri: devo darci un taglio. Spengo la radio, mi fermo sul ciglio della strada e frugo alla rinfusa tra i cd che tengo nel cassetto del cruscotto: me ne capita in mano uno che non ricordavo nemmeno di avere, una specie di fossile musicale degli anni Sessanta risalente ai tempi di Antonio. Ricordo vagamente di avere avuto una discussione con lui in proposito: sostenevo, non so più se a torto o a ragione, che The house of the rising sun fosse un po’ sopravvalutata rispetto ad altri brani del gruppo: un gran pezzo, per carità, ma pur sempre una cover; un brano mi aveva colpito particolarmente, nel loro repertorio: When I was young. La sua apparente rozzezza dissimula una ricerca musicale molto sofisticata; in quel brano avevo trovato, per così dire, l’essenza stessa dei Sixties, il beat nella sua forma primitiva, l’anima dura e pura dei primi tempi, quando ancora la musica non si era complicata la vita come nel progressive degli anni Settanta. Infilo il CD nel lettore e riparto. Riascoltandola confermo la mia opinione: il riff indiano della canzone suonato da una chitarra elettrica e un violino, che arriva dopo la pesante distorsione del vibrato della chitarra iniziale, mi coinvolge immediatamente, costringendomi a battere il tempo con i palmi delle mani contro il volante e a canticchiare un paio di strofe che ricordo a memoria. I met my first love at thirteen She was brown and I was pretty green And I learned quite a lot when I was young When I was young… My faith was so much stronger then I believed in fellow man And I was so much older then When I was young… Canto a squarciagola lo sgangherato ritornello centrale fatto di suoni onomatopeici. Na-na-ninanana-naniranana… Di colpo misuro la distanza siderale tra il me stesso di allora e quello di adesso, a tutto svantaggio di uno dei due. I miei litigi con Antonio sulla musica degli anni Settanta, i miei lunghi discorsi di critica musicale con Michelle… Da quanto tempo non mettevo insieme due pensieri di senso compiuto sulla musica? Cosa sono io senza la musica? Colto da un’improvvisa bulimia musicale, infilo nel lettore un altro brano dei Sixties che ascoltavo con Antonio e che mi faceva sempre un effetto eccitante: mi mettevo a ballare come un cretino, con lo stile epilettico di quegli anni; lui rideva scuotendo la testa e con la scusa di bloccarmi mi abbracciava stretto. Ma ora non voglio ripensare a lui, voglio solo sentire di nuovo quella musica. I said girl, you really got me now You got me so I don't know what I'm doin' Yeah, you really got me now You got me so I can't sleep at night… Era l’agosto del 1964 quando i Kinks, con quest’unica canzone, posero le basi di ciò che molti anni dopo sarebbero stati punk, hard-rock e metal: è tutto lì, in quel riff elementare e ossessivo, in quelle voci sguaiate, in quel furibondo assolo di chitarra. Sono vivo, dannazione, sono ancora vivo: ma chi sono? Cosa sono? Cosa sono diventato? In questo momento non posso capirlo: il mio cervello è frastornato da una musica primitiva, inondato dal ronzio assordante di un alveare con due regine di cui una si prepara a sciamare. In natura, se le regine appartengono ad alveari diversi, la selezione riserva alla più debole una fine atroce. La regina più debole deve fuggire, e io la seguirò come una fedele ape operaia, e se necessario morirò con lei. Io non sono naturale, ho sempre detestato la logica malthusiana: io sto con i perdenti. Si tratta solo di capire chi è la perdente. Ma esiste una perdente? O il perdente sono solo io? Arianna che mi manda da Antonia, Antonia che mi rimanda da Arianna: lancio il dado e torno alla casella di partenza. È una specie di gioco dell’Oca, ma meno divertente. Non ci siamo, manca un tassello in tutto questo: il quadro non sta insieme. Rifletto con la massima concentrazione consentitami dal mio precario stato mentale. So che si sono viste, ma questo non spiega l’ansia di Antonia di rimandarmi da lei, e non spiega neppure la sicurezza con cui Arianna mi ha lasciato tornare da Antonia. Sapeva di correre un grosso rischio, ma evidentemente era sicura di avere la partita in mano. E poi come può non essersi accorta che era incinta di nove mesi? Ho un’improvvisa folgorazione: sono un idiota, come ho potuto non pensarci prima? Lei è quella zingara che all’autogrill mi aveva svuotato il portafogli mentre mi distraeva con un gioco di prestigio. Dio, sì, sono un idiota, il soggetto ideale per un truffatore. Devo telefonarle immediatamente. Mi volto a cercare il cellulare, è scivolato sotto il sedile.