L’ultimo viaggio di Emmanuel Parte I Quel che resta da dirsi - Allora ciao. Tutto qui quello che resta da dirsi. L’orizzonte di ametista è pieno degli ultimi grilli estivi. Non è poi così male questo posto. Esito con lo sguardo sfuggente all’intorno, non sapendo più cosa fingere di osservare. Sento le sue mani toccarmi e stringere con decisione il cappio intorno al collo. Stringi di più, una volta per tutte. - La camicia è perfetta: sei elegantissimo. Non rispondo. Mi fa una carezza sulla guancia e mi tende la mano. - Salutami, ragazzino. Devi andare, ti aspettano. Ragazzino. C'è un solo modo per impedirle di continuare a proferire irritanti banalità: la bacio brutalmente sulla bocca. Rimane un po' interdetta, come se non ricordasse esattamente a cosa serve. Allontano la bocca e resto con la fronte appoggiata alla sua. - Quindi era questo che volevi? - le chiedo. Accenna ad un sì. - Potevi dirmelo. - Te l'avevo detto. - Già. Temo di averti dato una grossa mano per arrivare al risultato. Non risponde. Riprendo: - E quindi ora? - Ora sono libera. - E io? - Tu mi dimentichi. Replico con durezza. - Lo sai che non posso. - Lo stavi già facendo: è da più di un anno che sei lontano da qui. - Non sono mai stato lontano. Mai. - Non è difficile dimenticarmi: sono ingrassata e imbruttita, ho le pantofole e le calze smagliate. - Strategia patetica: lo hai fatto apposta. La guardo negli occhi. - Antonia, io ho provato a dimenticarti: dico sul serio. Ce l'ho messa tutta. Ma poi ho capito che non potevo. L’ho capito quel giorno della volpe. - Quale volpe? - Era una povera bestia in allattamento, cercava di sfuggire ai cacciatori, ma le hanno sparato e l’hanno uccisa. Ero sconvolto, il mio cervello era in tilt: non riuscivo a capire perché, ma era quel dettaglio dell'allattamento che mi faceva impazzire. Ora so perché. - Cosa sai? - Non m'importava niente di farmi sparare addosso per difenderla. In quel momento ho capito. - Cosa hai capito? - Che scappare è da vigliacchi: si resta, si soffre, si sopporta tutto quello che c'è da sopportare. - Emmanuel, per favore, torna in te: tu ormai stai con Arianna. - Antonia, a cosa è servita questa notte? - A ricordarci chi eravamo. - Non avevo bisogno di questo per ricordarmene. - È acqua passata: sei grande, devi fare l'uomo. La banalità atroce di queste parole mi provoca un moto di disgusto che si riflette in una smorfia. - Fare l'uomo? - Sì. - E cosa cazzo sarebbe fare l'uomo? Imparare a mentire? - Affrontare le tue responsabilità di adulto. - Ma io sono sempre stato pronto ad affrontare le mie responsabilità, Antonia! - esclamo con sdegno - Il punto è che pretendete di essere voi a decidere con chi dovrei affrontarle. - Tu e Arianna siete una coppia perfetta. Peccato essere così lontani: potresti mandarmi una vostra foto ogni tanto, o magari... È troppo, non la sopporto più: le tappo la bocca con una mano. - Basta, Antonia. Bacia il palmo della mia mano. - Basta tu, Emmanuel. Alza gli occhi e aggiunge con un sussurro: - Sul serio, ti prego. Ha il tono di una supplica, ma il senso è quello di un verdetto inappellabile. Non ci sto, lo respingo con fermezza. - Basta un cazzo. Stammi bene a sentire: c'è almeno una cosa da chiarire, prima che io me ne vada. - Quale? - Il bambino. Voglio sapere la verità. - Cioè? - Ma cioè cosa? Antonia, Dio santo, non fare quella che non capisce. - Dimmi cosa c’è che non ti convince. - Tutto, Antonia, ma proprio tutto. Una cosa in particolare: ha gli occhi blu. Non azzurri, blu profondo, quasi viola. Ancora più scuri dei miei. - E con questo? Potrebbe averli ereditati da uno qualsiasi dei suoi antenati. Anch'io ho ereditato i capelli rossi da una mia bisnonna: in casa mia non c'era nessuno che li avesse. - Antonia, tu non hai il diritto di farmi questo. - Di farti cosa? - Questo non te lo perdono, davvero. - Non hai nulla da perdonarmi. Non rispondo, ma il mio sguardo è così penetrante che è costretta ad abbassare il suo. Finalmente la smette con quella commedia; tace per qualche secondo, poi rialza gli occhi e mi dice con tono asciutto, quasi duro: - Non potrai mai averne la certezza, Emmanuel. Mai. Perciò dammi retta, lascia perdere. - Tu lo sai - le dico con fermezza. - No, vedi, il fatto è che non posso saperlo neppure io. Ho vissuto un periodo molto confuso dopo il matrimonio, la crisi con tuo fratello è iniziata molto presto. - Un po' troppo presto, direi, se la matematica non è un'opinione. Già durante il viaggio di nozze, oppure più probabilmente prima. È aritmetica da prima elementare, Antonia: sai, quella dove due più due fa sempre quattro. - Se ci tieni così tanto ad avere dei figli, datti da fare con Arianna. Questa uscita volgare e sconveniente mi indigna. - Ma che cazzo stai dicendo? - sbotto - Io non ci tengo affatto ad avere dei figli, voglio solo sapere se... Nel momento stesso in cui sto per dire "se Martino è mio figlio" la mia lingua si blocca di colpo. Ha superato il limite: non intendo rimanere qui un minuto di più a farmi trattare come un deficiente, anzi peggio, un mendicante, supplicandola di dirmi se ho un figlio a questo mondo o se l'ha avuto da chissà chi. Inoltre mi mette a disagio la sensazione che provo al pensiero di poter essere diventato padre: non so decifrarla, mi ha preso alla sprovvista, è una sensazione intensa e dolorosa. Se il bambino non fosse mio, non vorrei mai ritrovarmi ad aver desiderato di essere suo padre. E poi non so da che parte si incominci a fare il padre: sono troppo giovane e completamente inadatto a questo ruolo. Oltre tutto quel bambino dagli occhi viola è una creatura inquietante, non saprei come gestirla. Crescendo diventerà di una pericolosa e stranissima bellezza e finirà per mettersi nei guai come me, e io non saprò come... Mi riscuoto con un brivido, costringendomi a tornare alla realtà: fisso gli occhi vuoti di Antonia e comprendo che ho sognato tutto. La nostra storia è davvero finita: sto cullando un cadavere. Un senso di morte mi gela l’anima, azzerando ogni sentimento. Nel momento stesso in cui capisco di non provare più niente per lei, automaticamente mi rendo conto di non provare più nulla per nessuno. Era lei la fonte del mio amore, quella che mi permetteva di amare di riflesso anche altre donne: ora che è inaridita, io sono un deserto. - Okay, hai ragione tu: basta. Mi scosto freddamente da lei e con gesto formale le infilo in tasca un biglietto: - Il mio nuovo numero di cellulare, se per caso avessi bisogno di qualcosa. Mi chino ad accarezzare il gatto Gino che dorme in poltrona: mi risponde con un miagolio tremulo e affettuoso che mi commuove: forse so ancora provare dei sentimenti, forse sì, ma solo per creature semplici come gli animali. Poi, senza salutarla, raggiungo a rapidi passi l'automobile, ci salgo, giro la chiave nel cruscotto, manovro in retromarcia, inverto la rotta e sono di nuovo davanti alla sua casa. Non rispondo al suo cenno: risponderle vorrebbe dire avallare la finzione, perciò respingo il saluto in campo avversario con un deciso stuff block, la mia specialità di quando ero nella squadra scolastica di pallavolo, avevo un sacco di ragazzine che mi applaudivano adoranti ogni volta che con un balzo felino superavo la rete a mani tese e non vedevo l'ora di tornare a casa a raccontarglielo per farla ingelosire. Tutto questo in un'altra vita, un'altra cazzo di vita che non ne vuol sapere di ripetersi. Premo rabbiosamente sull'acceleratore e parto, deciso a raggiungere al più presto la mia nuova realtà: saluterò i miei e tornerò in Toscana oggi stesso. Non so cosa racconterò ad Arianna, ma di certo non la verità. Il fatto è che non me ne importa un cazzo. Con un senso di estraneità a me stesso che mi colpisce e mi spaventa, comprendo che la verità non ha più nessuna importanza per me: se sono destinato a fingere per tutta la vita, se la mia vita è tutta una commedia, che importanza può mai avere? A me la verità non l’ha mai detta nessuno, neppure Arianna. Sto guidando a centottanta all’ora da un lasso di tempo imprecisabile, obbedendo al suo comando come una marionetta, quando sento all’improvviso che lei ha tagliato il filo. Probabilmente è andata ad allattare, a cambiare il pannolino, a sferruzzare babbucce, a fare una di quelle cose da donna che diceva di detestare e per cui io non le servo più. Rifletto sul concetto di servire. A cosa serve il bambino? A cosa serviva il mio cane? A cosa serve il gatto? Non si ama quello che serve. Quello che si ama non serve. Io non voglio servire. A niente. Rallento, mi fermo, appoggio la fronte contro il volante. Rimango immobile ad occhi chiusi, ascoltando i battiti pesanti del mio cuore. La mia fretta di tornare in Toscana mi abbandona del tutto, provo un senso di smarrimento, un vero e proprio capogiro al solo pensiero: tornare a fare che? A recitare la parte del promesso sposo? Voglio bene ad Arianna, ma su un altro piano esistenziale, parallelo alla vita vera. Mi sta bene stare con lei, ma dev’essere ben chiaro che la nostra è solo una commedia, una di quelle commedie inglesi brillanti e spiritose in cui è tutto educato e finto: se la mettiamo così ci sto, recitarla è piacevole, ma la verità è un’altra e mi ci sono appena scontrato di nuovo, ammaccandomi tutte le ossa. La verità si riconosce a pelle, anche se porta la maschera. La verità si riconosce perché fa male. Perciò non c’è nessuna fretta. Non devo andare da nessuna parte, da nessuna parte. Devo restare fermo, semplicemente fermo, dare modo a questo marasma di sedimentare. Frammenti sconnessi di sensazioni recenti e violente turbinano nella mia mente, lei che lavora all'uncinetto, i paperi azzurri, il gatto Gino, io seduto di fronte a lei a torso nudo, la risata del piccolo mostro dagli occhi viola mentre mi prende a ceffoni. Un assemblaggio di tasselli di follia da cui dovrei fuggire inorridito, ma che invece mi sono penetrati dentro come lame di coltello insieme con la più destabilizzante delle certezze: Antonia non mi vuole più. Non ero preparato a questo. La verità mi appare in tutta la sua nuda chiarezza: non mi vuole appunto perché mi ama, non vuole più amare così. E nel suo affetto materno non c'è più spazio per me, ora che sono stato sostituito dalla bestiola. È finita, è davvero finita. All’improvviso provo un moto di rabbiosa ribellione: dove sta scritto che è finita? Le cose possono, devono cambiare. Dipende da me. Nessuno può permettersi di scrivere il copione della mia vita: lo decido io, non lo sceneggiatore da strapazzo che finora si è divertito alle mie spalle e che vorrei conoscere per sputargli in faccia. Questa storia si è trascinata troppo a lungo, so benissimo come deve andare a finire: lo so da sempre, l'ho sempre saputo. Bisogna solo fare in modo che io possa rientrare in scena, ecco tutto. Rientrare in scena con un ruolo qualsiasi, anche se nel frattempo dovessi fare una quantità di cose ridicole tipo sposarmi in chiesa con l'Ave Maria di Schubert e mettermi a fare il commercialista. Intorno a me ho solo dei malati di mente, e tanto più malati quanto più si credono sani, per cui l'essenziale è riuscire a fingere, assecondare i commedianti come Enrico IV, propormi come zio dell'adorabile moccioso o qualcosa del genere e intanto recitare la parte del fidanzato devoto, abituarmi a fare cose idiote con indifferenza: l’indifferenza di un attore che sa di interpretare un ruolo non suo. Qualsiasi cosa pur di ottenere il mio scopo, che a questo punto non so più quale sia: tornarci a letto, ripassare Platone, fare il padre, sposarla oppure giocarci a carte: mi è indifferente. Devo solo esserci, non importa come. Ho tutto da imparare da mio fratello. Questo accadrà certamente, in un futuro non troppo lontano. E poi mio fratello mi darà una mano, anche di questo sono sicuro: siamo paradossalmente nella stessa barca, abbiamo lo stesso scopo e poche possibilità di raggiungerlo, per cui la rivalità fra noi due non ha senso. Oh sì, accadrà, ne sono certo: almeno una partita a briscola non potrà negarmela, dopo che avremo messo a letto il bambino. Il letto va benissimo per giocare a scopone scientifico, per cui lo faremo senz’altro. Ma in questo momento l'ingranaggio si è inceppato, non riesco a fare assolutamente niente. Resto per molto tempo a fissare il vuoto davanti a me. Di colpo ho una confusa rivelazione: il viaggio come chiave di tutto, sola dimensione possibile, metafora di qualcos'altro. Il viaggio come intercapedine, nell'attesa di trovare la risposta. Nessuna fretta di fuggire, nessuna fretta di arrivare: arrivare dove? Prendo una decisione: rimetto in moto e imbocco una stradina secondaria che si perde su per le colline; andrò avanti a caso senza una meta: sarà il destino a decidere, se esiste il destino, altrimenti sarà il lancio dei dadi. Ad un tratto colgo il mio sguardo nel retrovisore: giro lo specchietto con un sussulto di vergogna. Un altro specchio, quello della sua camera da letto, ha impresso una sequenza indelebile nella rètina dei miei occhi, come le quattro mosche di velluto grigio del vecchio film che avevo guardato con lei un pomeriggio di un giorno lontano. Mio malgrado la mia mente riproietta la scena di poche ore fa, la vedo scorrere davanti ai miei occhi, la rivivo tutta al presente. Lei è seduta sul letto e mi tiene fra le braccia, io sono inginocchiato davanti a lei con i miei inutili pantaloni eleganti indosso e mi avvinghio al suo corpo mentre il mio cervello sconnesso produce un cortocircuito di parole che pronuncio con la bocca sul suo ventre: mi hai lasciato morire, mi hai lasciato morire senza muovere un dito, come hai potuto, io non sono normale sono malato e non voglio guarire, avrò pure il diritto di rimanere malato, io non amo Arianna non amo nessun'altra e il motivo è semplice, le altre sono fuori e tu sei dentro di me, io ti amo Antonia e anche tu ami me, e questo è tutto. Lei mi bacia i capelli e mi passa la mano sulla fronte come fanno le madri quando i figli hanno la febbre sussurrando zitto che svegli il bambino, e io all'improvviso quella mano la mordo con rabbia, dimmi di chi è il bambino, ma lei sorride senza rispondere. Quel bambino mi odia Antonia, perché? Non importa, imparerà ad amarmi: sali in macchina, scappiamo insieme, andiamo in un posto dove non possano trovarci mai più, prendi il gatto e il bambino, non dimenticarti la lettiera e la copertina con i paperi azzurri. Sorride, pensa che io scherzi, ma non scherzo affatto: partiamo Antonia, andiamo via, non importa dove. Io non posso mettermi in salvo senza di te, dobbiamo salvarci insieme. Sorride di nuovo e mi dice con semplicità: ma io sono già in salvo. Alzo lo sguardo su di lei, mi agonizzano in gola due parole: e io? Il pavimento sprofonda, mi inabisso, sento sul viso il calore delle sue cosce, la stoffa delle lenzuola, il freddo del marmo. Poi chi lo sa, non ricordo più nulla. Deve avermi tirato su per la collottola, confondendomi con il gatto. Mi cullava, il suo seno era strano, gonfio e pieno di ematomi, il sapore del suo latte dolciastro, la mia vita finiva com'era incominciata. Forse abbiamo fatto l'amore. Sì, credo di sì. Di sicuro ricordo di averle sussurrato prendimi Antonia, sono sempre stato tuo, solo tuo. E lei deve averlo fatto. Rivedo me stesso disteso supino nel letto accanto a lei, senza quegli stupidi pantaloni, senza niente addosso. Fisso il soffitto senza parlare, con un senso di angoscia indescrivibile. Antonia. All'improvviso mi alzo a sedere sul letto con lo sguardo spalancato nel vuoto. I miei occhi, sbarrati come quelli di un cieco, colgono soltanto il buio: istintivamente cerco la sua mano. Vedo con gli occhi della mente, come l'indovino Tiresia, ed è tutto improvvisamente chiaro. Sono come uno che risorge da una morte temporanea ed è ancora illuminato dall'eterno. Antonia, noi ci siamo amati davvero, ma non eravamo abbastanza forti. L'amore è forte e combatte: noi non abbiamo saputo combattere. Antonia. Siamo stati deboli e vili: era più facile scappare, era più facile tenersi il gatto e mio figlio. Antonia. Io ti amo più della mia stessa vita, e adesso che l'ho capito non posso più vivere. Antonia. Io ero stato mandato per salvarti, ma ho fallito, come con il nonno, come con il mio cane. Se sono un angelo, sono il più stupido degli angeli. Antonia... Vorrei dire forse non è troppo tardi, forse possiamo ancora farcela, ma dalla mia bocca esce soltanto una supplica, ti prego non mandarmi via. Lei, cullandomi, mi sussurra con una dolcezza assurda Emmanuel, devi andare al canile a prendere un altro cane: è lì che si è bloccato tutto, devi ricominciare da lì. Prendilo brutto e vecchio, come piace a te: promettimi che lo farai amore mio, promettimelo. Sopraffatto dall'eccesso di consapevolezza, mi rituffo a capofitto nel nulla, a malapena trattenuto dalle sue braccia. Mi sveglio di soprassalto da quella trance con il rantolo affannoso di chi riemerge da una lunghissima apnea. Ho il cuore a mille. Fermo il motore, spalanco il finestrino e caccio fuori la testa ansimando. Sei tu il pazzo, sei malato, è la tua malattia a farti credere il contrario. La salvezza è a galla, in superficie, dove Arianna si muove con l'eleganza razionale di un minuetto. È Antonia che ti rimanda da Arianna, sa che hai bisogno di lei perché sei malato. Anche Arianna lo sa, sa dove sono in questo momento, sa anche che ritornerò da lei. Arianna sa sempre tutto. Sono un verme, l'ho tradita, proprio io che odio i tradimenti e non li perdono mai: e allora perché non sento nessun rimorso? Niente di niente, il vuoto assoluto. Mio Dio, questo vorrà pur dire qualcosa… Rimetto in moto con le mani tremanti e il cuore in subbuglio e riparto verso una direzione qualsiasi.