In genere non sopporto la disco music, ma oggi va bene così: il suo ritmo tribale accompagna il pesante pulsare del mio cuore ed è in sintonia con l'odore di legno bagnato che filtra dalle imposte socchiuse fra gli scrosci della pioggia invernale, mentre mi sforzo di non pensare a nulla. Oggi compio diciott'anni. Sdraiato sul divano, lascio che due ragazze dark si divertano a intrecciare i miei capelli. Mi piace la sensazione delle loro carezze apparentemente innocenti sulla nuca e sul collo; mi accorgo che osservano di nascosto le vene delle mie braccia, e non per via del loro look da vampire: il fatto è che a scuola gira voce che io mi faccia, ma, come previsto dalla regia, non si vedono buchi. Gli insegnanti e i miei compagni lo deducono dal mio stato confusionale, ma in mancanza di prove sono costretti a tacere. Quanto ai miei, si direbbe che solo mio fratello abbia dei sospetti: infatti lo evito il più possibile. E poi c'è Teresa che secondo me ha capito tutto, ma Teresa non ha alcuna autorità su di me e posso mettere la mano sul fuoco sulla sua lealtà nei miei confronti: non tradirebbe mai el señor más joven che ha visto crescere in casa e che ama visceralmente. All'inizio della festa mia madre mi s’è avvicinata, elegantissima in un tailleur di Armani azzurro polvere, e mi ha chiesto dove fosse Michelle. Di solito è gelosa delle mie ragazze, ma per lei fa un’eccezione: è un po’ più grande di me, ma fa una figura magnifica al mio fianco, ha classe e conosce le buone maniere, senza contare che è ricca e mezza nobile. Per invitare Michelle non ho bisogno di scuse: la porta è sempre aperta per lei. Ho sospirato rassegnato: mia madre non ha il senso della realtà e delle proporzioni e la ferirei a morte se le dicessi come stanno le cose: Gerti non si abbasserebbe mai a partecipare a una festa di compleanno piccolo-borghese; noi non apparteniamo al Gotha delle famiglie torinesi, ai suoi occhi siamo solo dei mediocri arricchiti. Le ho risposto con tono evasivo non l'ho invitata mamma, non è che stiamo proprio insieme. Non ho aggiunto quello che per lei evidentemente non è ovvio, e cioè che per andare a letto con una ragazza non c'è bisogno di essere fidanzati. Lei non è riuscita a dissimulare il disappunto: peccato Emmanuel, ha detto, quella è la ragazza giusta per te. È la serata di libera uscita di Teresa ed Antonia si è offerta di dare una mano a mia madre con i preparativi. Non che ci fosse molto da preparare: Teresa ha lasciato tutto pronto in cucina, si tratta solo di portare in sala le vivande; tipo cameriera, insomma. Poco prima dell’inizio della festa ho incontrato Teresa nell'ingresso, tutta truccata e profumata: da qualche tempo ha un misterioso corteggiatore cileno; con i tacchi alti mi arrivava appena alle spalle. Le ho detto che era molto elegante; è arrossita e mi ha detto che dovrei tagliarmi i capelli e mangiare qualche uovo sbattuto. Esitava sulla soglia, non sapeva se uscire o rimanere; le ho aperto la porta sorridendo e dicendole di divertirsi anche per me. Non avrei voluto celebrare un evento così banale, ma i miei ci tenevano e io devo farmi perdonare in qualche modo il mio declino scolastico, che ormai non riesco più a nascondere. Rischio di perdere l'anno se continuo così: vorrei almeno che me ne importasse qualcosa, ma la prospettiva mi lascia indifferente. Mi dispiace solo per i miei. Perciò, per farli contenti, ho accettato di invitare i miei compagni e qualche amico, a patto che nessuno mi faccia regali: è da coglioni fare regali a un ragazzo ricco. Mio padre ha proibito la presenza di alcolici, forse equivocando sulle ragioni del mio stato di perenne disorientamento. Antonia si muove dal salotto alla cucina portando succhi di frutta, tramezzini e pasticcini; fa la sua figura nel suo abitino nero corto, ma non regge il confronto con Gerti da nessun punto di vista. Comunque devo ammettere che la sua presenza non mi è indifferente: mi dà uno strano piacere essere visto da lei mentre sono con altre ragazze. A volte vorrei che mi guardasse scopare con Michelle: questo raddoppierebbe il mio piacere, non avrei bisogno di stimoli chimici. Quando si allontana da me è come se i riflettori del palcoscenico si spegnessero: non ho più voglia di recitare, mi annoio a morte. Simone, uno dei miei compagni meno banali, un dislessico dotato di notevole intelligenza intuitiva, si propone come dj sperando di far colpo su Irene, la più carina della classe, una brunetta piena di curve interessanti. Devo ammettere che sa scegliere bene i pezzi, li prende per lo più dal repertorio degli anni Ottanta evitando i brani troppo prevedibili. Arretra di qualche anno per riproporre Psycho Killer, un classico nel suo genere; azzarda perfino The Modern Dance dei Pere Ubu, con cui guadagna almeno mille punti ai miei occhi; poi mette su Rock the Casbah, un colpo basso nelle mie condizioni. Non ballo mai in presenza di estranei; oggi però è diverso, ne ho bisogno: ballare aumenta il mio stato di stordimento e mi fa sentire bene. Incrocio ad un tratto gli occhi di Antonia e so esattamente quello che prova. Ora Simone ripiega su una scelta scontata: torno a sedermi sul divano lanciandogli uno sguardo di blando rimprovero; si stringe nelle spalle con l'aria di dire "che ci posso fare? Non dipende da me". Ha messo su Stairway to heaven, un bel pezzo in sé, ma una banalità nel contesto: l’esito è scontato, tutti/e si avvinghiano a qualcuna/o. Per discrezione Antonia e mia madre se ne vanno in cucina: provo di nuovo lo smarrimento di un attore che recita per una sala vuota. Nella penombra, prima ancora di rendermene conto, mi sento tirare per un braccio e mi ritrovo abbarbicato ad un morbido e sinuoso rampicante: Irene. Simone mi fulmina con lo sguardo: mi stringo nelle spalle con l'aria di dire "che ci posso fare? Non dipende da me". Uuuhuh, uuuhuhuhuh, end scis baaaaing e steeeruei to heeeven. Sto nuotando in tondo nel pozzo di melassa con il ghiro di Alice, qualcuno mi tiri fuori per favore. - Sei bellissimo stasera - mi sussurra lei all’orecchio, allitterando con troppe esse. - Grazie - rispondo. - Lo sai chi mi ricordi? - No, chi? - Quel figo assurdo di Sanremo, sai, quello di Destinazione Paradiso. Sorrido: un complimento ingenuo, ma pur sempre un complimento. - Lui è bruno - commento. - Non importa, tu sei lui in versione bionda. Rimango avvinghiato a lei in quel lento interminabile. Sa di gelsomino e legno di sandalo, se chiudo gli occhi visualizzo una spiaggia deserta al chiaro di luna in pieno agosto, che cazzo sto scrivendo. - Fa caldo qui dentro - dice ad un tratto - Usciamo in giardino? - Sta ricominciando a piovere - obietto debolmente. - Andiamo in veranda, vuoi? La seguo in veranda, incurante dello sguardo allarmato di Simone, e mi appoggio alla parete umida. Lei mi circonda il collo con le braccia e, prevedibilmente, mi bacia. - Baci bene - mi dice. - Trovi? Praticamente troverebbe ben fatta qualsiasi mia azione, visto che assomiglio a Grignani: le donne sono fatte così. Prende le mie mani e se le infila sotto il reggiseno. La sensazione è morbida e calda, piacevole in quell'atmosfera piovosa; la assecondo per un po'. Prevedibile la sua richiesta quando siamo tutti e due eccitati e il luogo non consente di concludere: - Andiamo in camera tua? Meno prevedibile la mia risposta: - No. Rimango appoggiato al muro mentre lei, senza parlare, si rimette a posto il golfino. Poi aggiungo: - Scusa. - Non c'è di che - risponde secca. Torno in sala senza attenderla. Lancio uno sguardo d'intesa a Simone mentre mi risiedo sul divano e lo vedo tirare un sospiro di sollievo. La festa è andata bene, tutti se ne vanno soddisfatti. Mia madre mi dà la buona notte e si ritira in camera sua. Io aiuto Antonia a riordinare il salotto: nessuno dei due pronuncia una parola. Poi lei si siede sul divano in attesa del rientro di mio fratello; io raccolgo i miei capelli in una coda di cavallo, ben sapendo che la cosa la indispone, e mi siedo sulla poltrona di velluto davanti a lei; si è sistemata con una gamba piegata sotto di sé, una posizione da libera pensatrice che si permette con me in virtù dei nostri trascorsi. È un modo per dirmi che posso pensare di lei quel che voglio, non le importa del mio giudizio, ma io so che non è vero e la cosa mi appare per quello che è: una ingenua provocazione. Apre una rivista e si accende una sigaretta. C’è un’atmosfera molto tesa fra noi. - Sei venuta in macchina? - le chiedo. - No. - Chi ti accompagna a casa? Michele? - Sì. - A che ora rientra? - Appena finisce la conferenza al Rotary. - Non ti preoccupa sposare un massone? - Per niente. - Non dovresti fumare: ti invecchia la pelle. - Ci sono molte cose che tu non dovresti fare, ragazzino. - Ho compiuto diciott’anni, tecnicamente non sono più un ragazzino. - L'età non è un fatto anagrafico. - Cosa non dovrei fare, per esempio? - Travestirti da educanda perversa, per esempio. - Non ti piaccio, cognata? - Emmanuel, per favore: detesto le domande retoriche. Lo sappiamo tutti e due che sei bello, ma la tua ormai è una bellezza troppo strana per una come me: va al di là dei miei limiti. - Una come te in che senso? Eterosessuale? - Terribilmente mediocre. - Se la metti su questo tono chiudiamola qui: non vale la pena di fare conversazione con una che finge di essere cretina e spara cazzate tanto per dare aria alla lingua. Buona notte, prof. Mi alzo per andare in camera mia: ovviamente è un bluff. Altrettanto ovviamente lei mi blocca: - Non sto fingendo. Mi volto sulla soglia: - Nel senso che sei cretina sul serio? - Dai, piantala e siediti. Mi risiedo al mio posto con l'aria di chi le sta facendo una magnanima concessione. - Allora spiegati. - le dico - In che senso troppo strana? - Nel senso che sei diventato una specie di creatura mitologica. Hai presente quelle che si leggono nei miei libri di greco? Sai, quelli mortalmente noiosi. - Mai detto che siano mortalmente noiosi. Mediamente noiosi. - Comunque al di fuori della mia portata, se hai capito il concetto. È come guardare una statua di Apollo o di Dioniso, un ritratto di Antinoo, un arcangelo di Botticelli, il Lucifero di Cabanel: li ammiri e basta, non pensi di poterci avere a che fare. Non riesco a trattenere un sogghigno: mi ammira e basta. Rinuncio a commentare. - A proposito, - riprende - come va la scuola? - Normale. Un paio di cinque e di quattro. - Cosa? Normale con due cinque, due quattro e la Maturità fra pochi mesi? Ma quattro di cosa, poi? - Niente di irrimediabile: mate e greco. - Di nuovo greco? Ma com'è possibile? - Non lo so, mi è sfuggito di mano. - Santo cielo... Vuoi che ti aiuti? Questa volta non me la sento di rifiutare: la situazione è grave. - Dovresti ricordare che il tuo aiuto è sempre stato bene accetto, cognata, sotto svariati punti di vista. - Ricominciamo da lunedì. - Con vero piacere. Comunque non cambiare argomento e finisci il discorso: quindi, siccome sono "troppo strano", non ti piaccio. - Mettiamola così, non sono attrezzata per la sessualità androgina. - Già, dimenticavo che per te ci vogliono i maschi veri. Chiude la rivista. - Emmanuel, sono stanca: è stata una giornata pesante. Se hai intenzione di continuare su questo tono me ne vado. - Non puoi, non hai la macchina: devi aspettare mio fratello. - Posso aspettarlo fuori, sotto il porticato. - Fa freddo. - Pazienza. - risponde con un po' di indignazione - Sempre meglio che restare qui a farmi insolentire da te, dopo che ho fatto da cameriera alla tua festa per tutta la sera. Ha ragione. Per un attimo mi sento un verme, ma mi passa subito: troverò il modo di farmi perdonare, lo giuro a me stesso. Magari tornerò a prendere qualche otto di greco, se ce la faccio. E poi non mi va che prenda freddo in questa serata piovosa di fine febbraio. Mi allungo verso di lei con l'espressione di un cucciolo che chiede la pappa: - Dai, resta qui al calduccio e cerca di sopportarmi ancora per un po'. Aggiungo con tono fintamente supplichevole: - Per favore. Non si lascia intenerire. Si passa una mano fra i capelli e rialza la testa con espressione severa. - Emmanuel, dobbiamo parlare seriamente. - Ti ascolto. - Ti prego di non essere così polemico con me. Ci aspetta una lunga convivenza, lo sai. Non le rispondo. Spegne la sigaretta e tenta di sorridere, ma le riesce male. - Dovresti affrontare la vita con maggiore serenità. Il passato è passato, non ha senso ripensarci: dovresti prendere le cose come vengono, lasciartele scivolare addosso. Continuo a non dire nulla. - Non capisco perché mi provochi. All'inizio poteva avere un senso, ma adesso non ne ha più nessuno. Non ti sei vendicato abbastanza? - È solo un gioco, cognata. - No, non lo credo affatto. La mia diagnosi è un'altra. - Sentiamo. - Sei in una fase in cui devi provare a te stesso che il tuo fascino è irresistibile e quello che è successo fra noi disturba un po' i tuoi calcoli, non è così? Non rispondo. Continua: - Se è tutto qui il problema, eccoti la soluzione: tu mi piaci moltissimo, Emmanuel. Non chiederei di meglio che stare con te, se solo avessi quindici anni di meno e non fossi fidanzata con tuo fratello. Contento? Ora il tuo orgoglio può uscirne a testa alta. Nella sua presunzione si attribuisce più importanza di quanta ne abbia: non occupa più tutto quello spazio nella mia vita. Sto per replicare qualcosa di offensivo, ma lei abbassa la testa e mi previene: - Non ne posso più di essere in guerra con te. Rialza la testa e mi guarda intensamente. Noto che le si stanno già formando delle rughette intorno agli occhi: Antonia invecchierà presto e male. Continua di slancio: - Cosa vuoi? Prenderti la rivincita? Fallo, se ti fa sentire meglio: lo sai che non ti direi di no, non ne sarei capace. Non m'importa con chi stai, se con una o con uno o con molti, non m'importa più niente di niente, ho superato la gelosia. Fallo, purché tu la smetta con questa tensione continua. La ascolto sbigottito. Lei stessa si rende conto di avere detto qualcosa di eccessivo: si prende la testa fra le mani e geme: - Scusami Emmanuel, sono molto confusa. Non so quel che dico, non so più chi sono e cosa voglio. Effettivamente dev'essere molto confusa per farmi un discorso del genere. Taccio, in attesa del resto. - Ti prego di non infierire. Fa' quel che vuoi, ma per favore, smettila di odiarmi. Non vedo l'ora che possiamo essere amici, noi due. Rimango ad occhi bassi, senza parole, cercando di decifrare il senso della sua farneticazione e soprattutto di quel "fallo". Cosa dovrei fare? Comunque io la giri, sono costretto a concluderne che sta cercando una scusa per portarmi di nuovo a letto e vorrebbe farlo passare come un favore fatto a me. Ah Antonia Antonia, che caduta di stile: ti piacerebbe, eh? E invece no, adesso non si può più. Certi treni passano una sola volta nella vita. Ma poi, pensandoci meglio, in che senso tornare a letto insieme dovrebbe farci diventare amici? Mentre rimugino su questo provo una sorda e crescente irritazione di cui non comprendo il motivo. Riesco infine a tradurlo a me stesso in questi termini: primo, non voglio affatto essere suo amico; secondo, perché diavolo sono così irritato, se non m’importa più niente di lei? Taccio a lungo, turbato da questo pensiero. Qualcosa mi offende profondamente e non riesco a capire cosa. In fin dei conti la sua proposta di tornare nel suo letto e dividerlo saltuariamente con altri non dovrebbe offendermi, visto che Gerti la condivido con mezza Torino. Chissà, magari mi piacerebbe ancora, e in ogni caso sarebbe un esperimento interessante: non so che effetto mi farebbe scopare con lei senza alcun coinvolgimento. Ma non posso, con lei è diverso. Appunto: perché è diverso? Visualizzo sulla lavagna della mia mente una strana proporzione: Emmanuel sta ad Antonia come Tegame stava al suo tesoro di pigne. Improvvisamente colgo il punto: sono come il mio cane, custodisco quei fondi di bottiglia come se fossero diamanti e mi indigna che lei li riveli per quel che sono, vetracci di scarto privi del benché minimo valore. Non sopporto che mi releghi fra le esperienze marginali della sua vita, che usi parole come serenità e amicizia per definire il nostro rapporto: la tensione, fra noi due, deve esserci, perché abbiamo condiviso qualcosa di unico. Anche se appartengo al suo passato, dovrei essere per lei qualcosa di sacro, o, se non sacro, almeno irripetibile. Dopo un lungo silenzio, che mi serve per rintracciare i miei pensieri in fuga per tutti gli angoli del cervello e riallinearli in assetto di guerra, le parlo lentamente, scandendo le parole: - Passare da un letto all’altro ti sta confondendo le idee, cognata. Io non sono quello con cui ogni tanto fai i giochini violenti. Io sono Emmanuel. Quell'Emmanuel, ricordi? Mi guarda con occhi fermi: - No, tu non sei più Emmanuel. - Davvero? E chi sarei? - Non lo so. Un ologramma, forse. - È un po' prestino per l’Alzheimer, cognata. - Il tuo corpo lo vedo, ma dov'è finita la tua anima? - Che ne sai tu della mia anima? - Era un'anima bellissima. - La coltivo come posso, e in ogni caso non devo renderne conto a te. - E dove lo trovi il tempo di coltivarla, impegnato come sei a farti mettere le mani addosso da tutti? - Che fai, mi sorvegli? - Ti ho visto per caso in veranda con quella tizia. Questo mi conferma quel che sospettavo: è pateticamente gelosa, altro che amicizia. Così dev'essere: lei si deve rodere, macerare di gelosia, deve desiderare quello che ha perso senza poterlo più riavere. - "Quella tizia" si chiama Irene, - puntualizzo con un po' di sadismo - ha diciassette anni e due magnifiche tette. Mi rilasso e mi appoggio contro lo schienale del divano con le braccia incrociate dietro la nuca. Credo di avere un'espressione sorniona mentre le dico: - Piaccio, cognata, che ci posso fare? Mi dispiace fartelo notare, ma sono in molti a volermi mettere le mani addosso. Del resto lo avevi previsto tu stessa un paio di anni fa, ricordi? - E tu non dici mai di no, vero? - Perché, dovrei? Mi guarda con un profondo dolore negli occhi: - Vorrei non averti conosciuto prima, Emmanuel. Passo falso, falsissimo! Era proprio lì che l’aspettavo: - Prima di quando? Prima di te? Incassa il colpo con una certa eleganza. - Quando ti ho conosciuto eri una creatura meravigliosa, piena di dignità e di orgoglio. Cos'è successo al mio piccolo Parsifal? Fatico a mascherare l'indignazione. La mia voce trema di sdegno represso mentre le rispondo: - Se era Parsifal che volevi, professoressa, forse non avresti dovuto scopartelo all'impiedi nello sbaguzzino, non credi? - Emmanuel, ti prego, basta. La sua voce esprime una rabbiosa disperazione che traduco così: vorrebbe non aver fatto quello che ha fatto, ma lo ha fatto e per di più vorrebbe rifarlo, cosa della quale non si capacita. - Comunque siete strane voi donne: volete gli angeli, i cavalieri medievali, gli esseri asessuati, solo per il gusto di poterli pervertire. - Voi donne chi? - Niente, dicevo per dire. Improvvisamente cambia tono e registro. - Ascolta, te lo chiedo con tutto il cuore: cerca di volermi un po' di bene. Puoi provarci, per favore? Altrimenti la nostra vita sarà un inferno: sarò costretta a rinunciare al matrimonio o a trasferirmi in un'altra città. - Un po' di bene, già. - È questo che vuoi? Vuoi che me ne vada? Taccio per qualche secondo. - No - rispondo con sincerità. - Allora provaci, te ne prego. E cerca di voler bene anche a te stesso: non sopporto che ti butti via così. Sogghigno: - "Mi butto via". A questo punto sarebbe il caso di farle notare che il concetto di buttarsi via si applica più al rapporto con una donna che potrebbe quasi essere mia madre che a quello con una splendida ragazza upper class di ventidue anni; sarebbe il caso di sbatterle in faccia l’improponibile confronto tra lei e Gerti. Ma è da vigliacchi, mi sentirei come uno che ruba le caramelle a un bambino. Preferisco ricorrere all’ironia: - Hai ragione: quando scopavi contemporaneamente con me, mio fratello e Frédéric, la situazione per me era di gran lunga più dignitosa. Come ho fatto a non pensarci? China la testa e si prende il viso tra le mani. - Ho commesso molti errori, Emmanuel. Perdonami. Apprezzo il fatto che ammetta, sia pur troppo tardi, i suoi madornali errori, ma questo non mi basta per perdonarla, anche perché non ho capito cosa annoveri fra gli errori: forse anche il nostro antico rapporto, forse anche le nostre giornate al fiume? Inoltre sospetto che uno di quegli errori frequenti ancora il suo letto. Ad ogni modo mi dispiace vederla così affranta. - Non facciamola tanto drammatica, - le dico con tono conciliante - me la sto cavando benissimo da solo. Alza gli occhi a guardarmi con sincera afflizione. - Io ti ho sempre voluto bene, Emmanuel, anche quando l'ho dimostrato così male. Non voglio starti sul collo, so bene che hai il diritto di farti le tue esperienze: il fatto è che... - Che? - Mi pare che tu abbia imboccato una strada pericolosa, ecco. - Le mie priorità sono cambiate: adesso volo più alto. - Questo volo non ti sta facendo bene, amore mio. Stop. Rewind. Riascolto. No, non avevo sentito male, l'ha detto veramente. Apro la bocca con venti secondi di inutile anticipo: la domanda non vuol saperne di uscire. La sputo fuori come un insetto: - Amore mio? - Sì. - Scusa, amore in che senso? - Come quando le mamme chiamano amore i loro bambini. - Ah. Quindi amore di mamma? - Potrei quasi essere tua madre, Emmanuel, lo sai. Sono tanto preoccupata per te. - Perché sei preoccupata? - Hai uno sguardo che non è più il tuo. E sei sempre troppo pallido. Perché non vai in montagna a sciare? Ti piaceva e ti faceva bene, eri anche abbastanza bravo. - Un po' più che abbastanza, se permetti: ho vinto anche una discesa libera. - Una discesa libera? Sei matto? È molto pericolosa. - Comunque ho altro da fare adesso. - E quelle occhiaie scure? Non le hai mai avute. Non mentire con me, per favore. Inghiottire quel rospo mi richiede uno sforzo di trenta secondi. Poi rispondo lentamente: - Succede, quando si fa sesso estremo tutti i giorni. Mi blocca con un gesto della mano prima che io possa spiegare: - Non voglio sapere cosa fai e nemmeno con chi. Chiunque sia, ti sta succhiando il sangue come un vampiro. Le rispondo con gelido sarcasmo: - Non ti riguarda chi mi succhia cosa. Rimane interdetta per un attimo, poi abbassa la testa e dice: - Hai ragione. La sua risposta mi irrita profondamente. - No, non ho ragione, - replico con rabbia - ed è particolarmente stupido che tu me lo dica dopo un discorso del genere. Ma del resto sei una mamma, no? L'hai detto tu. E le mamme non capiscono un cazzo. Non vogliono capire. Faccio una pausa studiata. - Eppure io so che tu sai. - So cosa? La guardo con un sospiro: - Ah Antonia, Antonia... Mettiamola così: temo che tu non abbia più il polso della situazione. Sono stato brutale, ma dovevo vendicarmi in qualche modo: amore di mamma non si può sentire. Si chiude improvvisamente a riccio: - Come non detto. La vita è tua, fanne ciò che vuoi. Non faccio in tempo a ribattere, perché si sentono i passi di mio padre e di Michele nell’ingresso. Antonia si alza, corre loro incontro, getta infantilmente le braccia al collo di mio fratello. Mentre si alza in punta di piedi per dargli un bacio la gonna le si solleva ed io vedo lo sguardo di mio padre posarsi sul suo reggicalze di pizzo nero. Michele le prende la vita fra le mani e sorridendo la distanzia da sé per guardarla meglio: - Ehi, come siamo carine stasera. Poi la bacia teneramente sulla fronte. Ghiro, melassa eccetera, tutto come sopra. Mio padre mi appoggia una carezza sui capelli con uno sguardo stanco: non sembra felice che il cucciolo di casa abbia compiuto diciott’anni. - Com’è andata la festa? - Benissimo, grazie. - Andiamo? - chiede mio fratello ad Antonia. Escono senza nemmeno salutarmi. Ha fretta, dannato Kellermann. Mio padre mi augura la buona notte e va a dormire. Lo vedo allontanarsi un po' incurvato e per la prima volta avverto la sua vecchiaia incombente, la sua fatica, la sua delusione: una sensazione orribile, il déjà vu del futuro. Povero papà. Rimango immobile a fissare la porta per un quarto d'ora. Visualizzo ai raggi x Michele che scopa in macchina con Antonia davanti al cancello: non ha nemmeno aspettato di arrivare a casa sua. Quel maledetto reggicalze: è un maschio elementare mio fratello, gli basta poco per perdere il controllo. La mia eccitazione sale in climax ascendente di pari passo con la sua, la sento come se al suo posto ci fossi io, ha reclinato il sedile ma nella fretta s’è dimenticato di tirare il freno a mano, ehi fratellone attento, stiamo finendo contro il platano. Chissà perché, a quel pensiero scoppio a ridere istericamente. Rido fino alle lacrime, fino a sentire male al diaframma, senza riuscire a smettere. Di colpo un'ondata di calore mi percorre alla rovescia, sale, scende, si ferma nel mio cervello: mi manca il respiro, sono scosso da un tremito convulso, ho lo stomaco contratto da violenti spasmi. Corro in camera, frugo nel cassetto alla ricerca di qualcosa di chimico ma non trovo niente; in compenso trovo il mio vecchio diario che nessuno legge più. Si apre a caso su una pagina scritta molti mesi fa: “Io ti amo, ti amo. Sei quell'amore che capita una volta nella vita, e io non sono all'altezza della situazione.” Scaravento a terra il diario, prendo a calci il muro. All'altezza di che, maledetto coglione? Non te ne frega un cazzo di lei, non te ne frega un cazzo di niente e di nessuno. Mi siedo per terra e mi raggomitolo con la faccia nelle ginocchia. Sono scosso dai brividi, non riesco a smettere di tremare e comprendo che ho un tremendo bisogno di farmi, Dio sono in pericolo, io non posso essere in pericolo mentre tu scopi in macchina con mio fratello, torna qui, parlami con rabbia e disperazione, parlami come ti pare, mandami al diavolo, dimmi che faccio schifo, dimmi amore mio, dimmelo nel senso di amore di mamma, dimmelo come cazzo ti pare Antonia ma dimmelo, com'è possibile, eri qui con me pochi minuti fa e poi sei sparita di colpo, dove sei, sto male sto male sto male. Corro in bagno, ficco la testa nel cesso e vomito tutto quello che ho bevuto. Quando mi rialzo lo specchio mi rimanda un’immagine spettrale, cadaverica, le occhiaie che solcano le guance come diagonali livide. Domani vado da Gerti. Esco dal bagno, spengo la luce e mi metto a letto con la febbre. Buon compleanno, Emmanuel.