Inginocchiato sulla sponda erbosa, Emmanuel apre il sacchetto e libera i pesci rossi, rimanendo a guardare il disorientato guizzare dei pesci e trattenendo per il collare Tegame che si avventa contro di loro; poi ripiega la busta di nylon in cui li ha trasportati e se la mette in tasca. Io, seduta sull'argine, osservo la scena. - Non so se hai fatto la cosa giusta: ho paura che moriranno prima di adattarsi al nuovo ambiente. - Può darsi, - risponde lui alzando le spalle - ma almeno moriranno liberi. Mi raggiunge e si siede al mio fianco con grande naturalezza. Indossa dei jeans strappati sulle ginocchia e una maglietta bianca larga con sopra la stampa di uno dei suoi chitarristi, ai piedi delle vecchie scarpe da tennis logore di un colore indefinibile. Se ne toglie una e la scuote per svuotarla dalla sabbia, poi se la infila nuovamente e la lascia slacciata. - Lo sai che ieri Teresa stava per ammazzare un porcellino d’India? Dalle sue parti hanno la barbara usanza di mangiarseli. Le ho chiesto se era scema o cosa, mi sono veramente arrabbiato. - Perché, noi non facciamo la stessa cosa con i conigli? - Hai ragione, è tutto contraddittorio. Io però i conigli non li mangio. Comunque la conosci Teresa, no? Ha borbottato un po’, ma alla fine mi ha dato il porcellino. - E tu cosa ne hai fatto? - Ho liberato pure lui. - Ma così lo hai condannato a morte: sarà finito in bocca al primo cane di passaggio. Non può difendersi, non conosce le regole della natura. - Lo so, non è come nei fumetti: la natura ha regole crudeli e incomprensibli. Ma almeno sono vere. Quelle umane sono finte: passa col verde, attraversa sulle strisce, non parlare con la bocca piena, va' a messa la domenica, vestiti così, muoviti cosà, trovati un lavoro, sposati, fai dei figli. Sorrido di quest'uscita un po' ingenua. - Hai fatto un'insalata mista, Emmanuel: avere dei figli è una cosa assolutamente naturale, non è una regola inventata dall'uomo. - Vabbè, quella sì. Non che sia obbligatorio averne, eh. - L'alternativa è l'estinzione. E poi, se vogliamo dirla tutta, con le leggi naturali tu hai solo da rimetterci. - Perché? - Perché se fai a botte con uno più forte te le prendi, se ti ammali muori, se non trovi un lavoro patisci la fame e da vecchio ti buttano via come un rifiuto. Sono le regole del vivere civile ad impedire tutto questo, non certo quelle naturali. - Può darsi. - Anche il tuo cane lo sa. - Il mio cane sa cosa? - Che i cani grossi ammazzano quelli piccoli, se lasci fare alle leggi naturali. Sei tu ad impedirlo, non la natura. - Forse è così che dev'essere. - È questo che vuoi? Vuoi che il più forte predomini sul più debole? Perché alla fine è tutto qui il riassunto della natura. - No, ma la mia opinione non fa testo: probabilmente la cosa non mi sta bene appunto perché sono un perdente. Forse, se fossi dall'altra parte, la penserei in tutt’altro modo. - Non credo, se ho capito bene chi sei. Se tu fossi dalla parte del più forte, probabilmente saresti quel tipo di persona che usa la sua forza per proteggere i più deboli. - Grazie, questo è davvero un bel complimento e spero di meritarmelo. - Comunque darsi delle regole non è contro natura, anzi, è nella natura dell'uomo. - Citi Protagora? - Vedo che lo hai riconosciuto. Per lo meno le mie lezioni ti sono servite a qualcosa. - C'è un enorme problema, prof: perché la natura è bella, se è tanto cattiva? Le famiglie del mulino bianco, i politici, gli intellettuali, i professori non sono belli, e sai perché? Perché non sono veri. E quello che non è vero non è bello, quindi non è buono. - Perché dai per scontato che il buono coincida con il bello? - Non sono io che lo dò per scontato, ma gente come Platone e Einstein. - Lo so, è effettivamente un problema, ma è un punto di vista molto pericoloso: lo stesso Platone, invecchiando, ha cambiato idea sull’argomento. Il bene è sempre bello, ma non sempre il bello è bene. È una questione molto complicata. - Il fatto è che, se gli togli la bellezza, l'uomo comincia a recitare una parte invece di vivere e alla fine diventa pazzo e cattivo. La bellezza è necessaria per vivere, quindi dev'essere buona per forza. - Dipende da cosa s'intende per bellezza, o meglio, da quello che si identifica con il bello. Anche i tuoi amici cercano la bellezza quando corrono dietro alle ragazze carine, ma questo non fa di loro delle anime elette o dei ricercatori di verità. - Lo sai tu cosa intendo io per bellezza? - Prova a spiegarmelo. - No, adesso no. Chiude il discorso. Si inginocchia sull'erba e incomincia a spazzolare il pelo grigiastro di Tegame, voltandomi le spalle. Lo osservo con un misto di stupore, malinconia e tenerezza. Mi rendo conto di volergli un bene profondo, ma il mio sentimento è inquinato da un malessere indefinibile, come una specie di languore che mi prende allo stomaco, non mi permette di essere serena e mi fa sentire sempre a disagio: probabilmente avrò bisogno di tempo per abituarmici; e dovrò farlo certamente, costi quel che costi, perché non voglio perdere questo ragazzo. Non so come, ma gli resterò accanto. Quando mi aveva giurato che fra noi non sarebbe mai più successo nulla, lo ammetto, non lo avevo preso sul serio; o meglio, avevo preso sul serio la sua intenzione, ma non credevo che sarebbe riuscito a mantenere la promessa: in fin dei conti è solo un ragazzo di sedici anni. Mi sono dovuta ricredere: ha dimostrato una forza d'animo fuori del comune, senz'altro superiore alla mia. Infatti il problema è più mio che suo: la bellezza che ho visto in lui in quei pochi istanti mi ha lasciato un buco nell'anima. Quella gioia negli occhi, l'abbandono fiducioso, la fisicità senza vergogna, quel tremito misterioso e profondo, e poi quella luce, quella luce incredibile: è come se in quei momenti la materia di cui è fatto si sublimasse in energia luminosa. Oserei dire che non ho mai visto niente di così spirituale in vita mia, e non posso mentire a me stessa fino al punto di negare che vorrei rivederlo. Ma Emmanuel, casto e irremovibile come un cavaliere medievale, mi nega la vista del suo corpo: se prima non aveva alcun ritegno a tuffarsi nudo nel torrente sotto i miei occhi, ora ha rinunciato del tutto a fare il bagno in mia presenza; si è rinchiuso nella lorica delle sue magliette troppo larghe con sopra la stampa dei suoi gruppi musicali preferiti, protetto dalla corazza della camicia a quadri del nonno, rinunciando a qualsiasi mezzo di seduzione e non rendendosi conto che questo atteggiamento scontroso, unito al suo abbigliamento casto e dimesso, lo rende ancor più desiderabile per le creature terrene: il giovanissimo Parsifal, il folle puro cresciuto nella foresta, l’anima che ha rinunciato alla sapienza del mondo e sta cercando di entrare nella vita superiore, esercita su di me un fascino arcano e potentissimo. Credo che si renda perfettamene conto del mio imbarazzo: nei miei confronti è sempre gentile e premuroso; non fa nulla per nascondere la gioia che gli dà la mia presenza, ma sta attento a non creare situazioni galeotte ed evita il mio contatto per quanto possibile. È come se fosse diventato adulto di colpo. O forse, semplicemente, non gli piaccio abbastanza. Mi disturba profondamente ammettere che vorrei vederlo più in difficoltà nel dominare i suoi istinti adolescenziali. Eppure è così, sto cercando di... Esito ad usare la parola giusta, ma solo se si ha il coraggio di definire le cose con il loro nome si è in grado di percepirne la sostanza. In questo caso la bassezza. Sto forse cercando di adescarlo? Una vampa di rossore mi sale al volto non appena formulo questo pensiero. Vergogna, Antonia. - Come mai la gonna e i tacchi alti? - chiede ad un tratto, come se mi avesse letto nel pensiero - Non è il massimo per camminare in campagna. Cerco di buttarla sul banale. - È una specie di divisa, mi dà un senso di sicurezza. Scuote la testa senza interrompere il suo lavoro. - Cazzate. Mi stai provocando, prof, e questo non è leale da parte tua. Sa essere molto diretto nel dire la verità: di colpo mi salgono le lacrime agli occhi, lacrime brucianti di rabbia per la mia stupidità. Per fortuna è girato di spalle e non se ne accorge. - Hai ragione, non me n'ero resa conto. - Di cosa? Del fatto che mi stai provocando? - No, del fatto che questo abbigliamento potrebbe creare dei malintesi. - Ok, mettiamola così. - Da domani blue jeans, maglietta e scarpe da ginnastica. - Sarebbe ora. Ti sentirai molto meglio, vedrai. Finalmente si volta. - Che te ne pare? - mi chiede mostrandomi il cane tirato a lucido - Bello, eh? Tegame non è mai stato bello, ma con le orecchie basse e il pelo appiccicato addosso è, se possibile, ancora più brutto. - È bellissimo - rispondo. Lascia andare il collare e il cane parte a razzo verso il bosco. - Dove va? - A farsi un giro. - Speriamo che non si allontani troppo. Non vorrei che andasse a cercarsi qualche cagnetta. - Tegame innamorato? - ride - No, non me lo vedo proprio. - Innamorato no, ma i cani vanno in calore un paio di volte all'anno. Si distende nell'erba appoggiandosi sui gomiti. - Per fortuna non siamo come i cani: è squallido essere programmati per l'accoppiamento. - Non dicevi che ti piace essere naturale? - Non ho detto che mi piace, ho detto che la natura è bella: è diverso. Sono ancora qui che sto pensando alla differenza tra bene e bello, è un discorso difficile. E comunque hai ragione, non potrò mai farcela ad essere del tutto naturale. Per esempio ho il terrore delle malattie. A proposito, non trovi che io sia un po' gonfio qui? Scoppio a ridere. - È il pomo d'Adamo, ragazzino: stai crescendo. - Lo so che sono ipocondriaco. Sono diventato così da quella volta che il nonno si è sentito male e non c'era nessuno in casa. - Vuoi parlarmene? - Preferirei di no, scusami. Gli appoggio una mano su una spalla. Tace a lungo, poi parla con lo sguardo fisso a terra. - È morto praticamente sulle mie ginocchia. L'ho visto soffocare, non ho potuto fare niente per aiutarlo. - Mi dispiace, Emmanuel. - Quel che è peggio è il senso di colpa. - Perché? Non hai nessuna colpa tu. - Invece sì. I miei volevano portarlo in una casa di riposo, dicevano che lì sarebbe stato seguito meglio dai dottori, ma io non volevo e mi ero opposto. Avevo detto che me ne sarei occupato io. E così l'ho condannato a morte. Povero ragazzo. Gli faccio una carezza sui capelli. - Non devi sentirti in colpa, Emmanuel: la tua intenzione era buona, lo hai fatto perché gli volevi bene. Tuo nonno lo sa. - Lo spero. - Come si chiamava? - Martino. Era completamente diverso dagli altri maschi della mia famiglia: ascoltava musica classica, giocava a scacchi, mi insegnava i solitari con le carte, mi leggeva Pinocchio. Zoppicava un po’ e camminava appoggiandosi al bastone, ma gli piaceva passeggiare e mi portava a cercare funghi nei boschi. Quando nevicava tirava un ramo basso di un pino e mi sommergeva sotto la neve, tutte le volte: era uno scherzo che gli piaceva moltissimo, povero nonno. Io stavo al gioco e facevo finta di cascarci ogni volta. - Da chi hai preso il tuo nome? Tuo fratello si chiama Michele, per coerenza avrebbero dovuto chiamarti Emanuele. - È una strana storia. La mia bisnonna si chiamava Emma, la nonna materna Emanuelle e i miei non sapevano che nome darmi: così è venuto fuori Emmanuel. - E la nonna paterna? - Nonna Carlotta non l'ho mai conosciuta, l'ho vista solo in fotografia: è morta giovane. Era una bella donna con i capelli rossi. Il nonno non si è mai risposato, era un tipo da grandi amori. Dopo di lui non ho voluto più bene a nessuno in quel modo, prima di conoscerti. Questa è, senza dubbio, la più bella dichiarazione d'amore che io abbia mai ricevuto. La morsa che serra il mio cuore di colpo si apre: mi rendo conto di quanto sia stupido angustiarsi per questioni legate alla materia quando qualcuno ti mette a disposizione un robusto paio d'ali. Sono sul gradino più basso della scala platonica, ma c'è quel filo teso dall'alto: sta a me afferrarlo oppure rotolare sotto terra. - Perché non mi parli mai di tua madre? - Perché non ho molto da dire. La mamma vive in un mondo tutto suo e bisogna lasciarla stare lì: è sempre stata bella, corteggiata da tutti gli uomini, ma ha vissuto un solo grande amore, quello con papà. Non riesce ad uscire dalla fiaba che si è inventata, dove lei è la principessa e lui il principe che l’ha portata a vivere in un castello incantato. I problemi non la toccano, mette la testa sotto la sabbia e fa finta che non esistano. Ogni tanto guarda se le acque si sono calmate e se vede che va tutto bene torna a sedersi in salotto e accende la tv per guardare le sue serie preferite; oppure legge un giallo, è appassionata di Agatha Christie; oppure sfoglia uno dei suoi libri d'arte e rimane per ore in contemplazione delle cattedrali romaniche. Le voglio bene, è una persona buona e gentile, ma non puoi aspettarti protezione da lei; se mai il contrario. Papà è in crisi col lavoro, ma ogni volta che lui e mio fratello parlano di affari lei si alza e se ne va, come se la cosa non la riguardasse. Qualche anno fa il suo gatto siamese ha mangiato un topo avvelenato e si è sentito male. Ci credi? Non ha più voluto vederlo, diceva che non sopportava di vederlo soffrire. Ho chiamato io il veterinario, l'ho curato per due settimane e alla fine è guarito. - Ora dov'è? - È morto. - Ah. - Era un vecchio gatto. - Capisco. Si sente un lamento insistente nell'aria: Emmanuel solleva lo sguardo. - C'è un rapace lassù: deve avere avvistato una preda. Guardo in alto anch'io e vedo il lento roteare di un grosso uccello scuro sopra di noi. - È una poiana - dico - Avrà visto un coniglio, un topo, un gatto morto... Ma Tegame dov’è? Emmanuel sbarra gli occhi, balza in piedi e si lancia di corsa attraverso il bosco. Mi alzo e lo inseguo, ma è impossibile tenere il suo passo: vola attraverso gli alberi a lunghi balzi di cervo. Ansante e sfinita, esco finalmente dal bosco e lo vedo in ginocchio sul ciglio della strada, immobile: Tegame giace riverso a terra, l'automobile che lo ha investito non si è neppure fermata. Mi chino sulla bestiola: respira ancora, volta la testa a guardarmi e la lascia ricadere. - Non muoverlo. - gli dico - Prendo la macchina, lo portiamo in clinica. Faccio in un lampo. Emmanuel, sotto shock, non dice e non fa niente. ... Tegame, con una zampa ingessata e un imbuto di plastica intorno alla testa, se ne sta sdraiato sul sedile posteriore della mia Uno nella cuccia imbottita di lusso che gli abbiamo appena comprato in un negozio di animali: lo vedo nel retrovisore mentre guido di ritorno dalla clinica. Ha un'aria avvilita ma composta e dignitosa. Emmanuel si gira a fargli una carezza. - Sembra un nobiluomo del Seicento, vero? - Sì, e di alto rango: un marchese o qualcosa del genere. Il collare elisabettiano gli dona molto. - Povero il mio cane tutto scemo. Mi bacia una mano con riconoscenza. - Avevo tanta paura che andasse a finire come col nonno. - Invece se l'è cavata, grazie a Dio. - E grazie a te. Dopo qualche minuto, sfinito dalla tensione nervosa, mi scivola in grembo e si addormenta come un bambino, cullato dall'andatura sonnolenta dell'automobile; mentre sta sprofondando nel dormiveglia sussurra senza voce quattro parole, ti voglio tanto bene; continuo a reggere il volante con una mano sola facendo il possibile per evitare di cambiare marcia. Non credo in Dio. Mentre guido e gli accarezzo i capelli sento che provo per lui un sentimento così profondo che quasi mi spaventa. Darei la vita per proteggerlo, ma come? Sono io stessa una perdente. Non ci sono eccezioni, non esistono i miracoli: la natura segue il suo corso e i malati i diversi i perdenti vengono sempre, con indifferenza, spazzati via. È solo questione di tempo. Non c'è che un modo per sopravvivere: trovarsi dall'altra parte.