I mesi si trascinano torbidi e lenti come un fiume fangoso. Emmanuel, come consumato da una febbre interna, continua a fluttuare da un’esperienza all’altra senza viverne effettivamente nessuna; appare stremato da quest’insensata deriva e nel contempo incapace di fermarsi. A volte rimane seduto per ore a guardarmi con una fissità imbarazzante, inseguendomi attraverso le stanze con uno sguardo blu completamente opaco, così diverso da quello che ricordavo. C'è una meccanica inerzia nel modo in cui segue i miei spostamenti con gli occhi, con angoli bruschi simili al volo spezzato di una mosca. Mi spaventa la vacuità dei suoi occhi che guardano senza vedere, distratti da un pensiero ossessivo. Si è incamminato per una strana via. Questa mattina sono entrata in camera sua in preda a un oscuro presentimento, mentre lui era a scuola, ed ho aperto tutti i suoi cassetti alla ricerca del suo diario. Finalmente l'ho visto ai piedi del letto, capovolto e semiaperto come se l'arrivo di qualcuno lo avesse interrotto mentre stava scrivendo. L'ho sfogliato e ho letto le ultime pagine con un batticuore ansioso. Il suo stile è diventato contorto ed enigmatico, non riuscivo a cogliere i fatti: intravedevo a malapena stati d'animo confusi e onirici che mi spaventavano, frasi in inglese tratte da brani musicali a me sconosciuti; l'ho sfogliato a ritroso: ad un certo punto, sotto una data risalente a circa due mesi prima, c'era un nome che sembrava il mio, scritto in stampatello e cancellato con rabbiosi tratti di penna; subito però mi sono resa conto che si trattava di un singolare caso di omonimia, perché la persona di cui si parlava nelle righe successive era inequivocabilmente un maschio; in mezzo ad una serie di riferimenti allusivi ed ermetici spiccavano queste parole: "Mi hanno detto che esci con Elettra. Con Elettra, cazzo"; seguivano tre punti esclamativi, come se il fatto di uscire con questa Elettra fosse qualcosa di inaudito; la pagina si concludeva così: "Sei un fottuto ipocrita, Dio che delusione, mi odio per quanto ti ho amato". Nelle date successive era tutto un accavallarsi di espressioni emotive, poco più che interiezioni, da cui emergeva un convulso marasma interiore; alla fine il tono cambiava e si leggevano frasi come "lei è un angelo cattivo, mi fa stare malissimo, finalmente, Dio ti ringrazio". Ho chiuso il diario con un senso opprimente di angoscia e sono uscita di casa, ripromettendomi di tornare alla villa nel pomeriggio per tenerlo d'occhio in attesa del rientro di Michele. Entro in casa con un saluto generale al quale non risponde nessuno: Emmanuel sta studiando matematica in salotto con un suo compagno e i suoi non ci sono; vado in cucina e chiedo a Teresa di preparare qualcosa di sostanzioso per la merenda. Mentre la aiuto ad imbottire i panini la domestica, senza guardarmi, dice: - Il signorino Emmanuel non sta bene, se n'è accorta? Fingo di non aver capito: - È malato? Stringe le labbra spremendo con forza un limone: - Sta con una ragazza più grande di lui. Teresa non sa che quello che sta strizzando nel bicchiere è il mio cuore. Dopo un attimo di terribile sbandamento mi riprendo: mi ripeto mentalmente la lezione che ho imparato a memoria, mi dico che perderlo è nell'ordine delle cose, che l'ho sempre saputo e che è puerile da parte mia arrivare impreparata al momento fatale. Tento di sorridere: - Se è solo questo, Teresa, non è niente di grave: stare con una ragazza non è una malattia. Mi fissa con uno sguardo durissimo, allineando i panini su un vassoio: - Certe donne sono peggio di una malattia. Mi volta le spalle e apre il frigorifero, ay Madre de Dios. Mi colpisce il fatto che Teresa cerchi in me un'alleata, vincendo la sua diffidenza nei miei confronti: questo significa che giudica la situazione veramente allarmante. Del resto sono la sola persona di casa che può capirla e aiutarla: nessuno conosce Emmanuel meno dei suoi. L’intuito di quella donna è infallibile, sorretto dal suo viscerale attaccamento per lui: sa tutto quello che fa in camera sua come se vedesse attraverso la porta chiusa. Una ragazza "più grande", ma non solo: evidentemente anche molto pericolosa. La gelosia mi devasta al pensiero di quello scomodo e imprevisto passaggio di testimone. Mi impongo però di far prevalere l'urgenza del momento: recepisco il messaggio di Teresa e mi predispongo a fare del mio meglio per essere all'altezza del compito. Respiro profondamente, poi entro in salotto con le gambe che mi tremano e poso sul tavolo un vassoio con bibite e generi di conforto. - Ecco qua, ragazzi: buon appetito - dico sorridendo. L'amico ringrazia, Emmanuel non dice nulla. - Tutto bene? - gli chiedo. - Alla grande - risponde senza sollevare lo sguardo dal libro di matematica. L'ombra scura sotto i suoi occhi dice la fatica, l'insonnia, il profondo disagio, e anche qualcos'altro che preferisco non capire. Teresa ha ragione: non sta affatto bene. Provo un impulso affettivo così intenso che mi procura dolore fisico doverlo reprimere. Gli faccio una carezza sui capelli che gli provoca un brivido improvviso. Poi esco dalla stanza e torno in cucina a preparare altri panini. Dalla cucina sento la voce dell’amico: - È giovane tua madre. Un attimo di silenzio. Teresa mi guarda. Emmanuel scoppia a ridere. Io mi taglio con il coltello del pane.