Selinunte. Per la prima volta, a diciannove anni, ero nella mia terra, la terra dei padri e del mito, lontano dal positivismo nordico. Avevo smarrito tutto di quelle radici, perfino l'accento: c'era voluta una gita scolastica per rivelarmi a me stesso. Mi aggiravo tra i fantasmi di quei resti sublimi, sentivo le loro pietre parlarmi una lingua dimenticata; ero trasognato e incredulo come Ulisse a Itaca nel tredicesimo libro dell'Odissea, quando finalmente riconosce la sua terra. Abituato alle nebbie padane, non ricordavo più i colori netti della natura. Sullo smalto del cielo campeggiava la massa corposa di una nube dipinta di ombre precise. Il nitore dell'aria era quello delle giornate di vento: fermo, assoluto, senza brume in lontananza. La primavera mediterranea stava esplodendo: sul verde forte dell'erba, ferita a sangue dai primi papaveri, si accendevano le larghe chiazze gialle delle ginestre; tutt'intorno scintillava l'argento degli ulivi. Un cespuglio di rosmarino spandeva un aroma amarognolo dai piccoli fiori azzurri su cui si posavano le api. Nel ronzio sommesso, fuso col frinire delle cicale, si ripetevano a intervalli i richiami degli uccelli. Tutto aveva l'arcana verità dell'eterno: la presenza dell'uomo vi appariva sgradevole e incongrua, in qualche casa costruita senza amore, nel latrato ossessivo di una sega elettrica, nel lamento meccanico e senza speranza di un cane alla catena. Fra quelle pietre calde, che imprigionavano l'oro del sole, si sentivano ancora passeggiare gli dèi. Uno di essi stava camminando al mio fianco ad occhi bassi in blue jeans e scarpe da ginnastica, i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo che accentuava il suo aspetto androgino. - La primavera qui è davvero mozzafiato - gli dissi. - La primavera mi fa sentire vile e colpevole. - rispose senza alzare lo sguardo - È come se un grande amore si fosse spezzato. - Lo vedo: non stai neppure guardando il paesaggio. - C'è troppa bellezza in giro. Mi sento escluso. - Escluso da cosa? - Da tutto quello che conta. La bellezza della natura mi ha chiuso fuori della porta. Non mi parla più, non mi dice perché esiste. - Studiare serve anche per capire queste cose. Scosse la testa. - No, non serve. Quasi tutto quello che studiamo non è né vero né bello. Ma è una vecchia storia, ne avevo già parlato con una mia insegnante un secolo fa. La buttai sul ridere: - Per essere un ultracentenario li porti bene gli anni. - Sul serio, non scherzo: sono decrepito. - A questo punto mi devi delle spiegazioni. - Non c'è molto da spiegare: forse è un mio limite. - rispose lui, fingendo di non aver capito su cosa vertesse la mia richiesta - Studiare non mi dice cos’ho a che fare con tutto il resto. Forse dovrei intervistare direttamente i molluschi, che ne dici? Scoppiai a ridere. - Perché proprio i molluschi? - Bisognerebbe chiedere al nautilus chi è il progettista. - Vuoi dire quello che gli ha disegnato la conchiglia? - Già. La scuola mi dice che è una spirale aurea perfetta, ma non spiega come questo sia stato possibile. La teoria darwiniana non mi ha mai convinto fino in fondo, ma in casi come questo fa acqua da tutte le parti: mi dici come può un semplice mollusco essere arrivato a costruirsi da solo una conchiglia a forma di spirale aurea perfetta? - Per tentativi. - Per tentativi? Sarebbe come pensare che buttando per aria qualche manciata di calce e mattoni prima o poi possa ricadere formando il duomo di Milano. È ridicolo, dai. Quella povera bestia si sarebbe estinta molto prima di riuscirci. Sorrisi. Il mio strano compagno proseguì: - E poi a che scopo? Non aveva certo bisogno di una forma geometrica così perfetta per vivere, gli bastava una buona e solida conchiglia, non ti pare? Una casetta calda, comoda e resistente. Mi venne di nuovo da ridere: il suo nautilus era fumettistico; me lo stava raffigurando come un vecchietto freddoloso con un cappottino di panno addosso e un berretto di lana in testa, una specie di Geppetto quando esce di casa in pieno inverno per comprare l'abbecedario. - Calda magari no, in fondo al mare: - gli dissi - ma ho capito il concetto. - Come vedi, studiare non spiega le cose essenziali. - Perché continui a studiare, allora, se pensi che sia tutto inutile? - Non tutto: ho detto quasi tutto. - Cosa salveresti? Estrasse un libro dallo zaino e me lo mostrò. Nei suoi occhi blu scuro si accese per un attimo una luce. - Questo, ad esempio. Scossi la testa scettico: - Non andrai molto lontano se cerchi lì la risposta. Se vuoi capire qualcosa leggi Marx, Engels, Feuerbach. Oppure, se vuoi buttarti sulla narrativa, leggi Orwell: ti apre gli occhi praticamente su tutto. Si rabbuiò. - Non ti piace Platone? - Non può non piacere Platone, scrive benissimo ed è un pensatore straordinario, ma credo che porti fuori strada da parecchi punti di vista. Pensa ad esempio al suo modello politico: è di un totalitarismo agghiacciante. - Platone non è solo il suo modello politico, e poi non è che quello di Marx sia tanto meglio. - Stai scherzando, spero. - Non troppo. In ogni caso anche quella di Marx è una prospettiva miope. - Miope? Stavo per sbottare "che cazzo dici?", ma mi corressi in tempo: - In che senso? - Nel senso che la lotta di classe e la dittatura del proletariato potrebbero risolvere tutt'al più i problemi del mondo occidentale, ma resta una lotta tra privilegiati. Risi. - Fantastico. D'accordo che sei un tipo decisamente upper class, ma come fai a definire privilegiati gli operai sfruttati dai padroni? - Siamo tutti privilegiati, Antonio, in questa parte del mondo. I veri disperati sono gli altri, quelli che non hanno nemmeno l'acqua. E poi non ci siamo solo noi sul pianeta, ci sono anche tutte le altre creature viventi. Tu e i tuoi amici siete in ritardo su tutto, vi concentrate su un falso target: il vero problema è che noi umani continuiamo a crescere a ritmo esponenziale. Sbuffai con impazienza di fronte a questo discorso, già sentito troppe volte. - Lo sai che tutto questo è depistaggio, vero? La tua generazione sta andando in una direzione sbagliata e pericolosa. - In che senso, scusa? - Nel senso che spostare l'attenzione su problemi che non siamo in grado di risolvere serve solo a darci l'alibi per non risolvere i problemi che sono alla nostra portata. In questo modo nessuno fa più niente, perché si butta tutto in un unico calderone e sembra tutto inutile e impossibile. È come quando uno dice "rinuncio a suonare perché tanto non sarò mai come Mozart". Una cazzata, dai. - Questo è un problema che si deve risolvere. - Quello della sovrappopolazione? E come? Con uno sterminio di massa? - Si arriverà appunto a questo, se non troviamo in fretta una soluzione. - E la soluzione la trovi in Platone? - No, che c'entra? O meglio, per adesso non l'ho trovata. - Comunque, se proprio devo stare sull'antico, personalmente preferisco Aristotele. Come fai a fidarti di uno che mescola l'argomentazione razionale con una sensualità da bordello? Pensa al finale del Simposio o all'inizio del Carmide, quando Socrate sbircia nella tunica del ragazzino. - Io li trovo stupendi. - Tu devi essere uno che crede nella divina follia. - Esatto. Mi strinsi nelle spalle, rassegnato. - Dammi qua. Mi feci dare il libro, lo aprii e lessi con tono declamatorio: - Dunque l'anima, nel far questo, fermenta tutta e sussulta, e quel tormento alle gengive che viene ai bambini che mettono i denti, appena cominciano a spuntare, quel prurito e fastidio, questa precisa sensazione prova l'anima di colui che incomicia a mettere le ali: fermenta e si irrita e sente un solletico mentre mette le ali. Chiusi il libro e glielo restituii senza commentare. - Per essere uno che non ama Platone - disse lui - lo conosci quasi a memoria: hai trovato il brano al primo colpo. Non raccolsi la provocazione e replicai con una domanda: - Vertiginosa altezza speculativa o delirio da psicofarmaci? - Vertiginosa altezza, non c'è dubbio. Scossi la testa. Il sole mi stava abbagliando, inforcai gli occhiali scuri. - Stai bene con gli occhiali da sole - disse lui con un po' di timidezza. - Grazie. Dovresti portarli anche tu, con quegli occhi azzurri. - Non sono azzurri, sono blu. - Più chiari dei miei, in ogni caso. Ne ho un altro paio se vuoi, sono dei Persol. Li accettò con gratitudine e se li infilò. Sembravano fatti per lui, gli stavano benissimo. - Comunque, - proseguii - per tornare a Platone, quando ci si muove in questa zona di confine è difficile giudicare. - Ho dalla mia Thomas Mann. - Bell'esempio ti sei scelto: Von Aschenbach, a forza di credere nel Fedro, fa una brutta fine. Credimi, la filosofia di Platone è borderline, in certi momenti assomiglia più alla geniale invenzione di un artista che alla speculazione razionale di un filosofo: lo diceva anche Aristotele. E il colmo dell'ironia è che Platone butta fuori gli artisti dal suo stato ideale, quando è lui stesso un sommo artista. - Qualcuno ha detto che la storia della filosofia è tutta un grande commento a Platone. Un motivo ci sarà. - È un'opinione come tante: per restare sul tuo terreno, è dòxa, non alètheia. Rimise il libro nello zaino senza rispondere. Continuammo a camminare per un po' in silenzio. Ad un tratto mi fece una domanda che mi colse in contropiede: - Tu non credi in Dio? Esitai un attimo prima di rispondere. - No. È un problema che ho superato. Scosse la testa guardando a terra e si chinò a raccogliere un tappo di bottiglia, che mise nello zaino. - Non si può superare il problema di Dio - disse rialzandosi. Intanto eravamo arrivati al Tempio C e stavamo costeggiando il peristilio percorrendo i maestosi corridoi fatti di blocchi di arenaria bionda. Non potei fare a meno di constatare che si intonavano ai suoi capelli e al colore della sua pelle, come se un bassorilievo fosse sbucato dalla pietra e avesse preso vita. - E quella tizia? - gli chiesi a bruciapelo - Fa parte anche lei del tuo progetto di thèia manìa? Avvampò improvvisamente. - A chi ti riferisci? - Quella bionda slavata, come si chiama? - Ah, vuoi dire Elettra. Prese tempo. Poi rispose con voce ferma: - No, lei non ha niente a che fare con la divina follia. È più un affare del cavallo nero, credo. - Una brutta bestia. - Sì, una brutta bestia: infatti ci ho dato un taglio. Non la sopportavo più. Grugnii la mia approvazione assentendo con il capo. Quel rapporto mi infastidiva, degradava la sua immagine: vederlo allontanarsi con lei ogni sera per chiudersi in macchina a scopare sulle rive del Po mi irritava e mi dava il voltastomaco, senza contare che temevo che qualche poliziotto di passaggio li scoprisse e li arrestasse per atti osceni in luogo pubblico. In ogni caso un passatempo grottesco, visto che non c'era nulla di serio fra loro. Detesto essere maschilista, ma non potei fare a meno di commentare: - Le donne sanno essere squallide. - Sì - confermò lui, e non disse più nulla. L'aria era satura di un tepore leggero. Ci fermammo all'ombra di un rudere, su blocchi di pietra dorata, mentre i nostri compagni prendevano posto nel prato e tiravano fuori i panini; feci un cenno di saluto agli accompagnatori, il giovane professore di ginnastica e la bella professoressa di storia dell’arte, fra i quali c'era notoriamente del tenero; mi misi a sedere con lui dietro un muro diroccato. Insaccato nell'eskimo, mi sentivo accaldato; me lo sfilai e cominciai a raccattare dei sassi cercando di centrare una lattina di pomodori vuota lasciata da qualche imbecille. Lui, con le spalle contro una colonna, fissava l'aria a braccia conserte. Dopo qualche minuto ruppi il silenzio: - A volte mi chiedo come facciamo ad essere amici, tu ed io: se ci pensi non abbiamo niente in comune. Mi ricordi Konradin. - L'amico ritrovato? Non è un bel paragone. - Lo so. - Comunque non è vero che non abbiamo niente in comune: abbiamo molte cose, fra cui la musica. - La musica che piace a me non è la stessa che piace a te. - Non è vero e lo sai: ascolto un sacco di cose degli anni sessanta-settanta. Sei tu, piuttosto, che non ti degni di ascoltare la mia musica. E poi non c'è nessun bisogno di essere simili per essere amici. - Dici? Io invece credo di sì. - Mi dispiace. Io sto facendo tutto il possibile per... - "Per" cosa? Ebbi l'impressione che stesse per dire "per piacerti", ma tacque e non finì la frase. Ripresi il discorso: - C'è qualcosa che mi sfugge in te, qualcosa che mi nascondi. - Quello che ti nascondo appartiene al passato ed è una cosa solo mia: rivangarla non servirebbe a niente, se non a farmi star male. Non c'è nulla che ti nascondo, fra le cose che ti riguardano. - Anche questo non è vero: il tuo cavallo nero appartiene al presente. È una componente importante del tuo carattere e me l'avevi nascosta. Io sono una persona razionale, non mi piacciono le zone d'ombra: non sai mai cosa possa saltarne fuori. Chi vive nell'ombra può accoltellarti alle spalle. Vorrei poter capire con chi ho a che fare, se devo essere tuo amico. - Non te l'ho nascosta. - disse un po' avvilito - Era alla luce del sole e ti ho già detto che io stesso non capisco cosa mi sia successo. - Comunque non è a questo che mi riferivo. Mi nascondi anche altro, qualcosa che riguarda me. Tacque un attimo, poi disse: - Posso essere sincero? - Devi. Continuai a gettare sassi nella lattina aspettando il resto del discorso. - Effettivamente c'è qualcosa che non ho mai osato dirti. - Osa adesso. Si schiarì la voce. - Io ti stimo moltissimo, Antonio, ma ci sono delle cose che non mi piacciono in te. - Tipo? - Tipo quando ce ne stiamo tutti seduti per terra a far girare una canna e tu canti una canzone accompagnandoti con la chitarra. È puerile e indegno di te. Serve per sentirci tutti buoni, e l’uomo non è buono. Tu sei molto intelligente e non puoi non capirlo. Mi dà fastidio che ti lasci coinvolgere in queste... - Cazzate - conclusi, scagliando un sasso nella lattina. - Cazzate, esatto. Che però servono: fanno presa sui ragazzini. Lo hai fatto anche con me. Sei un politico e ragioni da politico, no? Fai delle cazzate per piacere alla gente. - L'uomo è un politikòn zòon. - Non rispondermi con frasi fatte, per piacere: non vale. Ripresi a scagliare metodicamente sassolini, in silenzio. - Ti sei offeso? - mi chiese, un po' allarmato. - No. - Non volevo assolutamente offenderti. Mi piace stare con te, sul serio. Mi sono sentito molto solo negli ultimi tempi. Sono stato parecchio male, anche se non te ne ho mai parlato. - Forse un giorno mi dirai cos'hai avuto. - Non importa: l'importante è che adesso mi sento molto meglio. Sospirai riscuotendomi da quella specie di torpore. Mi alzai, presi la lattina di pomodori, la svuotai dei sassi e la misi in un sacchetto, pronto a buttarla nel primo cassonetto che avessi trovato. - Va be’, ne parleremo un'altra volta. - gli dissi arruffandogli scherzosamente i capelli - Ora mangiamo qualcosa, dai: è l’una passata. Sorrise rasserenato. Tirai fuori dallo zaino un panino e una birra. Lui fece lo stesso con il suo panino vegetariano e il suo succo di frutta. Mangiammo seduti all’ombra e poi ci distendemmo in santa pace a guardare le nuvole. Poi il cielo si rannuvolò, la luce si incupì e un fascio di raggi opachi, filtrando tra le sconnessure del rudere, cadde sulla scarpa sinistra un po' infangata del mio compagno. Frugò nello zaino alla ricerca del k-way e se lo infilò, disfece la coda di cavallo scrollando la testa e raccolse di nuovo i capelli sulla nuca. Un odore di fieno e temporale si diffuse nell'aria. Inaspettato, ci sommerse lo scroscio violento di un acquazzone: guardammo il fuggi fuggi dei compagni che raggiungevano di corsa il pullman, mentre un intenso odore di polvere bagnata si levava dalla terra e una cortina compatta di pioggia circondava il nostro rudere, trasformandolo in una cappa protettiva tiepida e ovattata. Eravamo soli. Mi sovvenne un esametro, ille dies primus leti primusque malorum, mi colpì la tremenda analogia. Lui rabbrividì: - Ho freddo. - Non fa per niente freddo, anzi fa caldissimo. - obiettai ridendo - Forse non stai bene. - Hai ragione, non sto tanto bene. Batteva i denti. - Tieni, - gli dissi - prendi il mio eskimo. Glielo avvolsi intorno alle spalle; lui se lo strinse alle braccia con le dita e serrò la mascella in una contrazione innaturale. Poi si voltò a guardarmi in un modo assurdo, quasi supplichevole, e si lasciò cadere sul mio petto con l'abbandono di un bambino. Di quel che accadde in seguito conservo un ricordo fatto di frammenti, un senso non di vergogna ma di stupore: il silenzio di vetro, lo scroscio della pioggia, la sabbia nelle mie mascelle contratte, un odore muschiato di farfalle appassite, gesti sonnambuli senza spessore senza eco, le mie mani troppo ruvide per la seta dei suoi capelli. Alla fine lui si alzò per primo e guardò fuori: - Andiamo, - disse - ha smesso di piovere. Mi alzai anch'io, malfermo sulle gambe, incassandomi nelle spalle come sotto una cappa di piombo. - C’è qualcosa di strano - disse mentre ci avviavamo al pullman. - Cosa? - gli chiesi. Scosse la testa e scoppiò in una breve risata che mi ferì come una coltellata nella schiena. Poi, tornato improvvisamente serio, rispose: - Non lo so. Stiamo volando all'ingiù. ... Il viaggio di ritorno in aereo fu il sogno malato di un mentecatto. Mi sedetti contro il finestrino; lui prese posto accanto a me e appoggiò il braccio contro il mio. Guardai fuori, respirando a fatica un’afa densa. Qualcuno venne a chiedermi qualcosa a proposito dello sciopero in programma per la prossima settimana: lui rispose al posto mio dicendo serio che non era il momento, che era meglio risolvere la cosa a tavolino. I miei occhi oscillavano, avevo una smorfia incurabile sul volto: i compagni mi guardarono esterrefatti e se ne andarono senza replicare. Emmanuel aveva paura di volare e durante il decollo si strinse a me. Chiuse gli occhi e piegò una gamba contro il petto, appoggiando la scarpa da ginnastica sul sedile per nascondere il gesto della sua mano sinistra che cercava la mia. Pioveva, l’aereo attraversava continue turbolenze: vedevo i fulmini scoccare intorno a noi illuminando a giorno il nero delle nubi. La sua paura si trasformò in eccitazione: ad ogni vuoto d’aria la sua mano premeva la mia, il petto gli si sollevava in lenti respiri, aveva gli occhi lucidi di febbre. Si distese in grembo il k-way per coprire i nostri gesti. Poi si alzò senza dire nulla e se ne andò in bagno. Dopo qualche minuti lo raggiunsi. Sulla soglia si voltò a guardarmi: fui risucchiato dal vortice dei suoi occhi. Lasciai passare di nuovo qualche minuto fra il suo ritorno e il mio. Quando mi sedetti al mio posto lui era disteso con le palpebre chiuse e l’espressione ineffabile di una statua arcaica sul volto. Mentre scavalcavo le sue gambe per sedermi, colsi gli sguardi dei compagni e dei professori: non c’era né rimprovero né ironia nei loro occhi, ma solo un muto, inesprimibile sgomento. ... La nostra storia durò solo qualche settimana. Adoravo ogni momento trascorso con lui, ma mi feriva mortalmente la sua gentile, fredda passività: Emmanuel mi lasciava fare, ma era evidente che non mi desiderava. Conservo distinto il ricordo della nostra ultima volta. Eravamo nella mia mansarda; ad un tratto lui si alzò dal divano e mise su This Is The Day di Captain Beefheart, un brano su cui qualche giorno prima avevamo avuto una seria divergenza di opinione: io consideravo l'intero album indegno del Capitano, mentre Emmanuel lo apprezzava; gli avevo fatto notare che i suoi gusti erano un po' troppo commerciali per un intenditore quale si vantava di essere, e questo lo aveva offeso, ma non mi ero reso conto quanto profondamente. Ricordo ancora il mio discorso: "Insomma, non pretendo che tu arrivi ad apprezzare un esperimento di decostruzione di tutti gli stereotipi musicali come Trout Mask Replica, quella geniale antologia del caos per dirla con Scaruffi, ma non puoi neppure ridurti all'easy listening, ragazzo mio. Ascolta Kandy Korn, se proprio vuoi qualcosa di più facile: almeno non si prende sul serio". Si era limitato a replicare: "Mi pare che tu non abbia colto l'ironia del testo". Aveva vuotato d'un fiato il bicchiere di tequila che mi ero appena versato e si era lasciato cadere sul mio letto tendendo un braccio verso di me e sorridendomi con una dolcezza incomprensibile e disarmante. Mi aveva stupito quella sua passività di fronte alla mia provocazione: credo che aspettasse il momento opportuno per darmi una lezione esemplare, e quel momento era arrivato. Si distese sul divano con il viso appoggiato sull'avambraccio e rimase a guardarmi senza parlare per tutta la durata del brano. Per quattro minuti e cinquantasei secondi, mentre gli struggenti fraseggi di quella chitarra improvvisamente sublime ricamavano cicatrici indelebili sul mio cuore, fui costretto a subire la tortura del suo volto bellissimo nella cornice chiara dei capelli sparsi sul cuscino nero, l'azzurro stagnante dei suoi occhi fermi e assenti, un accenno di sorriso sulle labbra, la mente altrove, altrove. Il messaggio era chiaro: sapeva di essere desiderato, ma quella volta non si sarebbe lasciato cadere sul mio letto. Alla fine si alzò senza una parola, spense lo stereo e si buttò il giubbotto in spalla. Sulla soglia si voltò: "Ci si vede a scuola" disse freddamente, ed uscì. Piombai a sedere sul divano e mi scolai tutta la bottiglia di tequila; il mio battito cardiaco era accelerato come se avessi salito di corsa i cinque piani per arrivare alla mia mansarda. In quel momento compresi che per amare Emmanuel bisognava avere un cuore di amianto. Mi stava uccidendo: smisi di cercarlo, lui non fece nulla per rivedermi. Ben presto ritornai al mio posto di combattimento, il solito paladino della ragione contro l'irrazionalismo dilagante delle frange di lotta più estreme, ma ero diventato prolisso e cattedratico e capitava che qualcuno mi fischiasse, perché tra gli spiragli dell'antico carisma adamantino si vedevano luccicare vetri rotti e fondi di bottiglia. A volte lo ritrovavo seduto sul pavimento dell'aula magna durante le assemblee, come quella prima volta: mi faceva un cenno di saluto con un sorriso. Se lo incontravo lungo i corridoi scambiavamo parole di circostanza sul tempo e sulla scuola; lui rispondeva sempre gentilmente, senza la minima allusione a quello che era stato, finché un gesto uno sguardo involontario non mi riportavano alle narici quell'odore di farfalle appassite, e allora mi allontanavo con un sorriso imbecille. Ora sono al secondo anno di giurisprudenza e mi sono fidanzato. Non credo proprio che farò il politico.