Seduta sul divano del salotto, sfoglio una rivista ed ascolto distrattamente la cadenza ritmica del palleggio, interrotta da esclamazioni di soddisfazione o di disappunto. Non ho voglia di assistere alla partita: so già che Michele umilierà Gianluca e Massimiliano, giocatori mediocri. La casa è deserta in questo pomeriggio di aprile: la mia futura suocera si è assentata per il rito bisettimanale dello shopping, che celebra ogni martedì e giovedì in compagnia di due amiche, con cui percorre via Roma perlustrando le vetrine e individuando a colpo sicuro gli oggetti più esclusivi, come le magnifiche décolleté di Sergio Rossi e il raffinato carré di Hermès che sfoggiava ieri a pranzo. Godo avidamente ogni attimo di questa rara solitudine, sperando che duri il più a lungo possibile e che Michele conceda la rivincita ai suoi avversari. Sto bene così, in compagnia di me stessa. L'unica persona di cui avrei un disperato bisogno appartiene al passato. Esattamente un anno fa eravamo seduti sulla riva del fiume e parlavamo dell'eros platonico. È probabile che io l'abbia solo immaginato, anzi sognato. Ora che sono sveglia mi aggrappo a un mediocre armamentario a metà tra epicureismo e stoicismo: mi ripeto che è stato giusto così, che va tutto bene finché nulla viene a turbare la mia serenità interiore fatta di piccolissime cose quotidiane; mettere un passo dietro l'altro: questo, in fondo, è la vita; essere soddisfatti di quello che si ha; nessuno ha il diritto di pretendere la felicità eccetera eccetera. Ma non è vero, non sono neppure serena: non mi sento più a mio agio in questa casa, a meno che, come adesso, io non sia completamente sola. Qualche sera fa, mentre attendevo il rientro di Michele, mi sono ritrovata a tu per tu con l’ingegnere; la signora Helena era andata a dormire, tormentata da una delle sue frequenti emicranie; lui taceva e beveva whisky seduto in poltrona, mentre io guardavo distrattamente le tv. Sentivo a tratti sulle mie gambe il peso dei suoi occhi azzurri. Dopo qualche minuto di imbarazzo mi sono alzata dicendo che dovevo tornare a casa. Kellermann mi ha accompagnata alla porta e all’improvviso, sulla soglia, ha cercato di baciarmi. Mi sono svincolata dalla sua presa con un guizzo felino dicendogli ha voglia di scherzare ingegnere. Sono uscita di corsa e sono tornata a casa con il cuore in gola. Mi era rimasto addosso il suo odore di whisky e dopobarba: ho fatto la doccia, ma la mia notte è stata turbata da strani sogni. Per tutta la notte ho ripensato alle parole di Emmanuel sul conto di suo padre. Ho misurato la distanza tra il suo intuito istintivo e la cieca razionalità di suo fratello, e questo mi ha fatta sentire ancor più in pericolo. Michele non saprà mai da chi è circondato: è una persona troppo onesta per supporre la disonestà negli altri, ma questo, ben lungi dall'essere un pregio, è un gravissimo limite; e quel che è peggio, io non potrò mai parlargliene, perché dovrei incominciare da me stessa. Sono finita in un vicolo cieco da cui non so come evadere. A tratti la prospettiva del nostro matrimonio assume per me i contorni di un incubo: sono continuamente tentata di mandare tutto all'aria con un pretesto. Michele, nonostante la sua mancanza di intuito, deve avere avvertito il mio disagio ed ha in programma di trasferirsi in una casa tutta per noi, che ha già individuato in strada Cassano sulla collina di Pecetto: una villetta moderna su un piano solo, circondata da un giardino non troppo grande. È bellissima, sento che lì potrei stare bene. Michele però è ancora indeciso sull'acquisto: quella villetta, per quanto graziosa, non è certamente lo status symbol che i suoi si aspettano dal loro primogenito: non ha nemmeno una piscina; perciò sta considerando la possibilità di acquistare una casa molto più prestigiosa nella stessa zona, a costo di accollarsi un mutuo. Sto cercando di dissuaderlo: faccio il tifo per quella villetta, non me ne importa niente della piscina. Sono sicura che lì potremmo stare bene, lontano dai suoi. Ma il vero problema è Emmanuel. Quel ragazzo ha prodotto in me un guasto irreparabile: è soprattutto per non essere costretta a frequentarlo che vorrei andarmene da questa casa, ma nello stesso tempo conto i minuti che mi separano dal momento in cui potrò rivederlo. So perfettamente che non è più il ragazzo con cui passavo le giornate un anno fa, ma è tutto ciò che mi resta di lui. Ogni giorno aspetto impaziente il suo ritorno: solo quando sento i suoi passi sulla ghiaia del giardino ricomincio a respirare. La sua presenza mi fa male nella stessa misura in cui mi è indispensabile. Il pensiero che prima o poi lo vedrò entrare in questa casa abbracciato ad una ragazza è per me una continua tortura; nello stesso tempo non potrei sopravvivere senza averlo accanto, non importa come. Vorrei fuggire, ma la fuga mi proietterebbe in un vuoto senza fine. In sintesi, sto impazzendo. Improvvisamente la sirena d’allarme emette un suono assordante, le luci intermittenti iniziano a lampeggiare: sento che lui è qui. Il mio cuore batte all'impazzata. Entra in salotto con la sacca da ginnastica appesa alla spalla e richiude la porta con un piede, reggendo in una mano un libro e nell'altra un bicchiere. Distolgo lo sguardo, non riuscendo a dissimulare l'emozione. Lui è sempre stato bellissimo ai miei occhi, ma adesso la sua vista mi ferma il cuore in petto. Emmanuel a diciassette anni è diventato di una bellezza imbarazzante: è cresciuto ancora, le sue spalle si sono allargate, la sua mandibola ha assunto un contorno più preciso, i lineamenti del viso si sono fatti più definiti, la voce più profonda; ha lasciato crescere i capelli fin sulle spalle e li divide in mezzo come una ragazza, lasciandoli ricadere in disordine. Non esibisce i suoi mezzi fisici, anzi pare indossarli con la stessa distratta noncuranza con cui porta i jeans strappati sulle ginocchia; non tiene alta la sua bellissima testa, il suo sguardo rivolto a terra evita di incontrare quello degli altri. Questa scontrosa timidezza lo rende ancora più attraente. A tratti mi pare di impazzire di gelosia, ma fisso ostinatamente lo sguardo nel sole fino a che le creature della notte non si dileguano. Ho rinunciato a lui da sempre. Conosco il mito: la mortale che si macchia di hybris con un dio finisce incenerita. Come certe splendide meduse, Emmanuel brucia anche da lontano. Di tutto questo lui è perfettamente inconsapevole. Mi fa un cenno di saluto. Ha il viso arrossato dal sole, i capelli raccolti in una coda di cavallo; porta attorno al collo una collanina bianca e un cerchietto d'oro al lobo dell'orecchio sinistro; la sua guancia sta incominciando a scavarsi di una delicata ombra grigia, lo sguardo dai toni polverosi è sottolineato da lievi occhiaie come pennellate azzurrastre. Sento che qualcosa in lui sta cambiando. Mi prende un’immotivata irritazione: - Non si saluta? Volta verso di me tre quarti di un viso strano, dolce e spigoloso come quello dei ragazzi di Botticelli, un viso che non è esattamente quello che ricordavo. - Ti ho appena salutata. Ho voglia di polemizzare con lui: trovo un altro appiglio per litigare. - E non si offre? - È per te questa spremuta. Come ogni bravo tennista, Emmanuel riesce sempre a spiazzare l'avversario. Mi porge il bicchiere ed apre il libro. - Che pensiero gentile. A cosa lo devo? - Sto cercando di comprarmi in qualche modo i tuoi favori. Mi fa un sorriso scemo: - Non quelli che pensi. Domani ho un'interrogazione di greco. - Non penso niente. Cosa ti fa credere che ti aiuterò? - Lo hai sempre fatto. - Non hai più bisogno di me. - Oh sì che ne ho. Mi piazza davanti il libro aperto: - Dialetto eolico. Impossibile sottrarsi alla sua richiesta di aiuto di fronte al più astruso fra i dialetti greci. - E va bene, dai. Vieni qua. Scivola a sedere accanto a me con i fianchi snelli inguainati nei jeans di marca aderenti, così diversi da quelli qualunque di un anno fa, logori e sdruciti, che si toglieva facendoli roteare sopra la testa e buttandoli sull'erba prima di correre al torrente col suo cane. Si volta per cercare qualcosa nella sacca; la sua schiena china emana un odore acre e caldo: questo mi fa ricordare che stamattina ha giocato la finale del torneo di pallavolo. - Com'è andata la partita? - Abbiamo vinto, - dice distrattamente, mentre sfoglia il libro alla ricerca del brano da tradurre - quelli dell'altra squadra non avevano dei buoni alzatori, e poi il tifo era tutto per noi. - Specie quello femminile, immagino. - Può essere - risponde vago. La palla rotola ignorata fuori campo. Avevo sperato che si trattasse di Alceo, ma prevedibilmente è l'ode della gelosia di Saffo. Un tempo la amavo, ma ho finito per detestarla: trovo deprecabile la mancanza di fantasia degli insegnanti. Mi accingo alla spiegazione stando attenta a mantenerla su un piano tecnico: quartine di tre endecasillabi più adonio finale, psilosi, baritonesi, mutamenti fonetici eccetera. Lui mi segue in silenzio, prendendo appunti. Concludo, come sempre, con un'interrogazione. - Prova a leggere in metrica. Attento a non confondere il ritmo con quello dell'endecasillabo falecio, è un errore molto comune: il dattilo è in terza sede, non in seconda. Esegue la richiesta con soprendente disinvoltura. - Bene: sei migliorato molto, vedo. - Frequento qualche bravo studente. - Mi fa piacere. Ora traduci. - "Pari agli dèi mi sembra...". E mentre lui traduce la fin troppo celebre ode, una ciocca argentea sfuggita alla coda di cavallo sfiora il suo viso; e mentre le sue dita accarezzano le righe del testo greco - "...e sorridi soave; e questo a me fa balzare il cuore nel petto...". l'azzurro delle occhiaie disegna una traccia pallida sotto le ciglia innaturalmente scure - ..."subito un fuoco sottile mi corre sotto pelle, con gli occhi nulla più vedo, ronzano le orecchie...". - Rombano, non ronzano. e lo scintillio dell'orecchino d'oro gli trafigge il lobo, mentre la collanina si adagia delicatamente sulle sue clavicole disegnando il confine tra il collo e il petto, che si solleva in respiri regolari sotto la casta maglietta bianca. Il suo corpo fiorisce di vezzi femminei. Dalla crisalide che amavo è sbucata una splendida farfalla, ma non è esattamente il tipo di metamorfosi che avevo sperato. Giorni fa ho assistito senza volerlo ad una sfuriata dell'ingegner Kellermann a proposito dell'abbigliamento di Emmanuel, troppo diverso da qualsiasi cosa si sia mai vista in questa casa. Lui l'ha ascoltata in silenzio ad occhi bassi, finché le recriminazioni paterne si sono trasferite su sua madre che lo ha difeso come sempre ("ma se è bello come un arcangelo"), mentre lui sgattaiolava non visto in camera sua e li lasciava lì a litigare fra loro, secondo una tattica ben consolidata. - La scansione metrica e la traduzione vanno molto bene - dico alla fine. - Ora sentiamo il commento. Come definiresti quest’ode? - Definirla come? - Prova a darle un titolo. - Ce l'ha già. Comunque secondo me è sbagliato. - In che senso? - Nel senso che la gelosia non c'entra niente. Sto per informarlo che la sua impressione è con ogni probabilità esatta, quando il suo cellulare squilla. - Scusa - dice, e si alza per rispondere. Riprendo la rivista e fingo di immergermi nella lettura. Lui dice ciao e mi volta la schiena. Più che parlare sussurra. No oggi non riesco. Parla con una spalla appoggiata al muro; si volta sorridendo. Domani forse. Va bene, sì. Ride per una battuta. Mi gira di nuovo la schiena e parla a bassa voce, non sento più cosa dice. Questa telefonata ha la stessa tragica ciclicità della scena di quel film dove lui sta morendo e sale le scale ricominciando sempre daccapo. Dalla misura del mio star male comprendo quanto potrei star male se. Blocco sul nascere il mio pensiero. Il rimpianto di quei momenti folli e meravigliosi è atroce, la sola idea di ripeterli mi atterrisce. Provo odio per me stessa: per quanto tempo ho camminato sull'orlo di un precipizio e come sono stata vicina a cadere. Mi coglie una vertigine: mi alzo, vado alla finestra e la apro. Michele mi sorride e mi fa un cenno di saluto mentre gioca a tennis, le colline sono ancora al loro posto, disegnate dai solchi precisi, come di rastrello, dei vigneti, l'auriga impugna saldamente le redini. Va tutto bene, tutto bene: torno a sedermi. Lo sento concludere la telefonata, sì okay, ti ho detto di sì, non posso parlare adesso, sono con un'amica. Sì domani, promesso, ciao. Un'amica. Riattacca e il sorriso gli cade dalle labbra. Riprende posto sul divano: - Okay, scusa. Possiamo finire? - È finita, mi pare, no? Accendo una sigaretta. Mi tremano le mani. Allontana il fumo con gesto infastidito. - Veramente no, mi avevi chiesto di parlare del titolo. - Sentiamo allora: perché dicevi che la gelosia non c'entra? - Perché secondo me quello che esprime Saffo è stupore, non gelosia. Lei si sente devastata alla vista della ragazza amata e non capisce come faccia l’uomo che le sta vicino a restare indifferente. Esita un attimo: - Cioè, è solo una mia idea: in pratica lei descrive un crescendo parossistico, una situazione da infarto; non so se sia possibile sentirsi così solo perché si vede una persona da lontano. - Sì, è possibile. - Allora credo che il senso sia questo. - Se ti può confortare, è la tesi che va per la maggiore. - Mi conforta moltissimo, grazie. - Un'ultima domanda: se la professoressa ti chiedesse chi ha imitato quest'ode, sapresti rispondere? Annuisce e comincia ad elencare gli imitatori, partendo da Catullo. - Chi era al telefono? - butto lì distrattamente. - Un amico. Aspiro una boccata di fumo. - Vorrai dire un'amica. - No, un amico. Spengo la sigaretta schiacciandola nel portacenere di cristallo. Indugio a guardare gli ultimi fili di fumo. - Fammi capire: tra voi giovani di oggi si usa questo tono con gli amici? - No, tra noi giovani di oggi di solito non si usa. Arrotolo e srotolo la rivista fissando il pavimento. Mi sento morire, ma adoro questa creatura terribile, qualunque cosa stia diventando. Provo l'impulso irrefrenabile di accarezzargli una guancia, ma riesco a dominarmi. - Bene, - gli dico con un sospiro - è una tua scelta di vita, non parliamone più. Sembra sorpreso e leggermente infastidito dalla mia reazione. - Infatti non credo che la cosa ti riguardi - risponde dignitoso. Non riesco ad evitare una battuta un po' acida: - Vedi solo di non farmi concorrenza: stai diventando più femminile di me. Non risponde niente: mi guarda con un'espressione a metà tra il rimprovero e il compatimento, si alza, raccoglie le sue cose e si avvia verso l’uscita. - Farai un figurone, sei molto ben preparato - gli dico. Sulla soglia si volta e mi dice freddo: - Grazie, professoressa. Esce. Un urlo dal campo: qualcuno ha messo a segno un micidiale ace e ha vinto la partita. Applausi, risate, le voci si avvicinano. Il sole sparisce dietro una nuvola. Mi guardo le mani e, per la prima volta in vita mia, mi rendo conto di essere vecchia.