Da qualche settimana ho preso l'abitudine di passare le serate ai Murazzi con Antonio e i suoi amici. Non che sia una gran vita la loro: parlano di politica e di occupazioni, bevono birra nei pub e cantano canzoni degli anni settanta accompagnandosi con la chitarra, Neil Young, Joni Mitchell, l'immancabile Locomotiva di Guccini. In mezzo a quegli epigoni del Sessantotto mi sento come una comparsa di Strawberry Statement: eppure, non so perché, quando sono con loro il mio malessere si attenua fin quasi a scomparire, probabilmente proprio perché è tutta una recita e questo mi permette di assumere un'altra identità. Quando esco appendo il vecchio Emmanuel all'attaccapanni e lo lascio lì fino al mio rientro. Indossarlo di nuovo quando torno a casa mi costa molta fatica: cerco di non pensarci e vado subito a letto, consolandomi al pensiero che domani sera sarò di nuovo un altro e non starò più male. La chiave di volta di tutto questo è Antonio: c’è una straordinaria forza in lui ed un’altrettanto straordinaria ingenuità. Con lui mi sento rassicurato, quasi sereno. Ha un effetto benefico anche sul mio andamento scolastico: lui ha la media del nove e una cultura di prim'ordine per un semplice studente, ed io, per non sentirmi troppo da meno, studio molto più di prima e leggo un sacco di libri; di conseguenza i miei risultati sono complessivamente buoni anche senza bisogno di lezioni private e i miei mi lasciano uscire tutte le sere senza fare storie. Mi guardo bene dal parlargli del mio malessere: detesto il vittimismo e non servirebbe a farmi sentire meglio. Lui intuisce il mio stato d'animo ma rispetta il mio desiderio di riservatezza. Una sera però mi ha chiesto a bruciapelo: - C'è qualcosa che non va, Emmanuel? Spiazzato, ho negato l’evidenza: - No, perché? - Non lo so. Non ti vedo mai completamente partecipe, è come se tu fossi sempre alla finestra. Inutile negare. - Infatti è così - ho risposto. E ho chiuso ermeticamente l’argomento. Antonio si è reso conto che non doveva avventurarsi oltre su quel terreno minato. Dopo qualche minuto di silenzio, con l'intuito che lo caratterizza, mi ha di nuovo spostato sul mio terreno preferito: - Ti piacerebbe imparare a suonare la chitarra? Era una cosa che avevo sempre desiderato. - Moltissimo - ho risposto. - Vuoi che te lo insegni? - Certo. - Cominciamo domani. Il giorno dopo Antonio mi ha insegnato i primi accordi, la-mi-re: mi ha spiegato che con questi tre accordi si possono suonare intere canzoni, ad esempio La canzone del sole di Battisti. Mi esercito tutti i giorni sotto la sua guida: lui corregge la posizione delle mie dita e m’insegna accordi sempre meno semplici; miglioro di giorno in giorno, anche se ovviamente non arriverò mai al livello di un vero chitarrista. Canto anche, un’altra cosa che desideravo da sempre ma che non avevo mai fatto, salvo in camera mia da solo. La mia voce è lontana anni luce dallo yarragh di Cobain, ma l'effetto complessivo non è male, anche perché la mia pronuncia dell’inglese è abbastanza buona. Intanto, frequentando locali alternativi con lui, osservo quello che mi circonda. In quegli ambienti gira parecchia roba, come la chiamano loro; diciamo roba classica, niente crack e droghe sintetiche: più che altro fumo e lsd. Antonio disapprova quella che definisce una cattiva abitudine (non si sbilancia più di tanto in proposito, credo per non apparire moralista: si concede solo qualche spinello ogni tanto), ma sembra che ritenga doveroso avere a che fare con i centri sociali, dove la droga è di casa. Non so perché lo faccia: forse perché i cosiddetti alternativi di sinistra sono in ritardo di vent'anni su tutto come lui. Io, come ho detto, osservo e prendo nota, senza partecipare a nessuna di quelle strane cerimonie. La prima cosa di cui ho preso atto è che fumare erba annebbia il cervello; in sostanza produce lo stesso effetto descritto da Omero per i Lotofagi: chi la fuma si sente più felice e migliore, pur essendo in realtà solo più stupido. Questo mi ha confermato quello che già sapevo, e cioè che fra intelligenza e felicità c'è un rapporto di proporzionalità inversa. La cosa mi è risultata evidente da quando siamo entrati in contatto con i Tantra, un gruppo di teatranti scoppiati che si fanno di erba e poi, sotto l'effetto di quella roba, mettono in scena strane improvvisazioni in uno scantinato del Macondo. Espressione corporea, la chiamano. Da quelle improvvisazioni derivano poi i loro spettacoli, in pratica allucinazioni collettive, a volte affascinanti, a volte solo esibizionistiche. Mi diverte assistere alle prove del gruppo, anche se mi sento infastidito da certe performance: non ritengo necessario né interessante denudarsi in scena, men che meno mimare azioni sessuali. Non sono un guardone, non rientra fra le mie perversioni. L’autrice dei loro testi, se così si possono chiamare quegli assemblaggi di interiezioni emotive e cerebralismi intellettuali, è la fidanzata di Bastiano, il leader del gruppo. I due hanno quel che si dice un rapporto aperto, nel senso che ognuno fa quel che gli pare con chi gli pare. Si chiama Elettra Giordano ed è una diciannovenne pallida e bionda, un’isterica lucida che vorrebbe farsi di roba pesante ma non ne ha il coraggio, e perciò sfoga le sue tensioni con il sesso. Ma le sfoga male. Lo so con certezza, perché per un po' le ha sfogate con me. E qui, dottore, apro un'altra parentesi: con lei, per la prima volta, ho scoperto il significato dell'espressione "buttarsi via": è una sindrome strana e pericolosa, che consiste nel provare godimento a identificarsi con gli umori e le secrezioni del proprio corpo; potrei definirlo il piacere della decomposizione, una specie di cupio dissolvi che assale l'essere umano quando ha perso il rispetto di sé. Tutte le sere, dopo la fine delle prove, lei ed io passavamo un paio d’ore insieme in macchina; non posso dire che mi piacesse davvero, ma neppure mi dispiaceva quel rapporto stravolto come un flash da acido, senza senso e senza futuro, consumato frettolosamente sulle rive del Po in mezzo ai passanti, nascosti solo dai finestrini appannati; lei mi diceva cose ridicole tipo scopami presto, devi venire in fretta, ci vedono, ti voglio subito, prendimi adesso, poi si metteva a urlare forte, io le tappavo la bocca e le dicevo ma sei scema ci arrestano, però ho sempre avuto il dubbio che facesse parte del copione e che lei fisicamente non sentisse niente. Se non altro non voleva il preservativo. Quel sapore forte mi mancava da tempo, anche se era così diverso da quello che ricordavo. Ma presto ne ho avuto le scatole piene delle sue seghe mentali: non c'era nulla di vero in quell'agitarsi convulso, era come lasciarsi sbatacchiare qua e là dall'elica di un frullatore; il risultato era poltiglia di materia senza tracce di anima. Inoltre mi ero accorto che la cosa dispiaceva ad Antonio: perciò ci ho dato un taglio e non ho più messo piede al Macondo. Peccato, era un bel locale; ma a Torino non mancano certo i pub interessanti: la Divina Commedia per esempio. Anche se è un po' fuori mano, è uno dei miei locali preferiti: è suddivisa in tre piani, uno per ogni regno dantesco; il Paradiso è occupato da una trattoria con terrazza, il Purgatorio da una zona cocktail, l'Inferno da una specie di cripta in mattoni pieni che ospita una buona programmazione live: l'ideale per un amante della musica come me. Si fanno strani incontri all'Inferno. Una sera, durante un intervallo dello spettacolo, ero seduto a un tavolo a bere la mia coca-cola mentre Antonio sulla terrazza del Paradiso fumava uno spinello con degli amici. Improvvisamente le luci in sala si sono spente e sul palco sono apparse due sagome in controluce. I due hanno incominciato a danzare al buio al ritmo dei bonghi suonati da un tizio seduto in basso; poi i riflettori si sono accesi. C'è stato un botto, è scoppiata una lampadina. Lui era un tipo con un bel fisico, i capelli biondi ricci e il viso androgino. Lei, alta e aristocratica, indossava una tutina nera come i suoi capelli, aveva le gambe lunghissime e danzava con gli scaldamuscoli rosa alle caviglie; aveva il viso di una bambola, perfetto e inespressivo, e si muoveva con l'agilità di un felino, a balzi e scatti improvvisi; poi si fermava e inarcava le spalle in un modo che non so descrivere. - Chi è quella tipa? - ho chiesto a Bastiano, seduto vicino a me. - Si chiama Michelle. - E di cognome? - Kerschbaumer. Fa la ballerina al Teatro Nuovo. - È una figa spettacolare. - Non farti illusioni, è troppo grande per te. - Quanti anni ha? - Ventidue. - Ma sì, era solo per sapere. - E poi è fidanzata con lui. - Lui chi? - Roberto Morra. Il ballerino. - Mi chiedo cosa ci faccia una ragazza così ai Murazzi: sa di upper class lontano un miglio. - Secondo te? - Sinceramente non saprei. Ha accennato ad un tizio con il chiodo seduto tre tavoli più in là: - Quello è il suo pusher. Durante il balletto la ragazza mi ha guardato per un attimo con i suoi occhi da pescecane, neri e vuoti. Ho avuto la netta sensazione di sentire un clic. Finito lo spettacolo l'ho aspettata fuori, ma non l’ho vista passare: doveva essere uscita dalla porta sul retro. Dopo dieci minuti già non ci pensavo più: ero tutto preso da un discorso che mi stava facendo Antonio. Premetto che, anche se sono un tipico rappresentante della generazione X, mi sento completamente estraneo alla mentalità dei miei coetanei. Antonio è intelligente e lo ha capito subito: è evidente da tutto, dal fatto che non frequento le discoteche, dai miei gusti musicali, dalle mie letture, dal modo in cui parlo e scrivo. Lui dice che sono un tipico prodotto del liceo classico, ma, a parte il fatto che lui lo è più di me, mi dà molto fastidio che banalizzi così il mio modo di essere. La mia diversità è nata con me, il liceo classico non c'entra. Già alle medie i miei compagni mi dicevano che parlavo strano, e in effetti non sopporto lo svacco espressivo dei miei coetanei. Sulla loro bocca tutto diventa di uno squallore intollerabile, e non alludo alla parola cazzo che si sente tutti i momenti: quello è il meno, la uso anch'io se serve. Non ci sono parole di serie A e parole di serie B, le parole sono parole: l'importante è usarle a proposito. Il punto è che non si può ridurre la comunicazione umana a interiezioni da primitivi. Il modo in cui ci si esprime riflette il modo in cui si pensa, questo si sa, ma pochi si rendono conto che a sua volta il linguaggio plasma il pensiero; se ti abitui ad esprimerti come un selvaggio, diventerai un selvaggio: è matematico. Trovo tremendo soprattutto il modo in cui si esprimono le ragazze, la loro stupida abitudine di scrivere k invece di ch e nn invece di non, la loro punteggiatura sovrabbondante e imprecisa, i loro quattro o cinque punti esclamativi (uno basta e avanza), tutti quei puntini di sospensione (devono essere tre, non uno di più e non uno di meno): sono un insulto alla decenza, non so come possano pensare di piacermi scrivendo in quel modo. Una che si esprime così scopa masticando chewing-gum, è una persona volgare e disgustosa. In realtà anche scopare è un termine disgustoso: odio la perifrasi fare l'amore, ma devo ammettere che è l'unica in grado di esprimere il concetto. Scrivere questo diario mi ha permesso di capire che lo stile non è una questione di forma, ma di sostanza: se uno descrive una situazione con lo stile sbagliato, la sensazione che comunica è completamente diversa da quella che aveva intenzione di esprimere; perciò, di fatto, descrive un'altra situazione. È un fatto semantico, non stilistico. Oggi la gente parla una specie di slang sgangherato: una lingua così è letterariamente improponibile, ma del resto uno stile più evoluto non avrebbe nessuna credibilità in un romanzo ambientato ai nostri giorni. Sono i tempi ad essere volgari, la lingua non fa che rifletterli. Perciò uno scrittore è preso tra due fuochi: o sceglie la verosimiglianza o sceglie la decenza. La difficoltà principale sono i dialoghi. Un personaggio come me, ad esempio, per essere credibile dovrebbe esprimersi come si esprimono i ragazzi della mia età nelle mie latitudini: dovrebbe dire cazzo o minchia ogni tre battute ed evitare ogni sentimentalismo da collezione Harmony. Il risultato è un cavernicolo mezzo autistico, una specie di analfabeta di ritorno. Peccato che quel troglodita non mi assomigli per niente: quando lo sento parlare in quel modo lo prenderei a sberle, vorrei buttare via il libro, chiedere i danni all’autore. Chi è quell'idiota? Ah già, dimenticavo: sono io. Mi sono chiesto più volte se questo sia un problema tipico dei nostri tempi o se fosse così anche in passato: forse semplicemente gli scrittori di una volta non si preoccupavano della verosimiglianza; o forse, chissà, la gente si esprimeva davvero in modo molto più formale. “Suvvia!”, continuò Marguerite, "stiamo dicendo delle bambinate. Datemi la mano e torniamo in sala da pranzo. Non devono capire il significato della nostra assenza". “Andate, se volete, ma io vi chiedo il permesso di restare qui”. “Perché?”. “Perché la vostra allegria mi fa troppo male”. “Allora sarò triste”. E che dire del narratore onnisciente, quello che vede le cose dall'alto e sa sempre tutto di tutti? Dov'è, chi è, come fa a leggere dentro le persone? La notte trascorse veloce, e il mattino arrossì nel trovarlo tuttora avvinghiato a Matilda. Ebbro di piacere, il monaco si levò dal lussurioso giaciglio della sirena: non pensava più con vergogna alla propria incontinenza, né temeva la vendetta del cielo offeso. Vorrei davvero poter scrivere così. Poi, in tempi più recenti, subentrano gli stream of consciousness, le dimensioni interiori che si intrecciano ai fatti e non possono essere raccontate impersonalmente. Lei dovette fare uno sforzo sovrannaturale per non morire quando una potenza ciclonica meravigliosamente regolata la alzò per la vita e la spogliò della sua intimità con tre zampate, e la squartò come un uccellino. Riuscì a rendere grazie a Dio di essere nata, prima di perdere la conoscenza nel terribile piacere di quel dolore insopportabile, diguazzando nel pantano fumigante dell'amaca che assorbì come una carta asciugante l'esplosione del suo sangue. Bellissimo da leggere, ma se non ti chiami Màrquez è meglio che lasci perdere. Per concludere, non si tratta di un effetto del liceo classico: è un problema che mi pongo da sempre. Se mai è vero il contrario: ho scelto il liceo classico perché è l’unico in cui io possa riconoscermi almeno in parte, sebbene io non mi riconosca affatto nella scuola in sé: è un'istituzione nei confronti della quale provo una viscerale diffidenza, come ben sa colei che, in un passato ormai remoto, tentò di occuparsi dei miei studi. Ebbene, pur sapendo tutto questo di me, Antonio ha la fastidiosa abitudine di coinvolgermi nel disprezzo che prova per la mia generazione e spesso mi catechizza come se fossi un idiota. Lo sopporto solo perché, come sempre, è in buona fede. Siete acritici, non pensate, non sapete soffrire, volete solo divertirvi, siete poco abituati all’esercizio della ragione, siete vuoti, siete facile preda di falsi miti, sempre sull’orlo dell’esaltazione fanatica, attento Emmanuel, fascismo e integralismo hanno radici comuni, violenza e misticismo sono due facce della stessa medaglia e fanno presa sul vostro vuoto generazionale, etc. etc. Una sera mi fece un discorso che ricordo quasi a memoria. Mi è rimasto impresso per varie ragioni, tra cui il fatto che mi aveva invitato per la prima volta a salire nella sua mansarda di via San Massimo. Avevo un po' di batticuore, e non solo perché avevo fatto cinque piani di scale senza un attimo di sosta, impresa che mette a dura prova anche gambe allenate come le mie. La sua tana, come la chiama lui, è arredata con semplicità ma con buon gusto, con travi a vista di legno dipinto di bianco, qualche tappeto moderno sul pavimento di parquet e diversi poster alle pareti, fra cui una gigantografia del Quarto Stato. Come molte persone di sinistra, Antonio è di famiglia piuttosto benestante: i suoi non hanno problemi a pagargli gli studi e la casa in cui vive; rispettano il suo precoce desiderio di indipendenza: è figlio unico e sta dando loro molte soddisfazioni. Al centro del soggiorno campeggia un grande divano di pelle nera; appena entrai, quella sera, Antonio mi invitò a sedermici e mi chiese cosa volessi bere: optai per un succo di ananas. Rise, andò in cucina e tornò con le bibite. Mi versò il succo, ma ci aggiunse del latte di cocco e del rum, affermando che così era meglio. Non si sedette accanto a me, ma sulla poltrona di fronte. Si versò una bevanda alcolica che credo fosse tequila, ne bevve un sorso e mi disse: - Quindi abbiamo appurato che Moon in June non è troppo sperimentale per te. - No, infatti - confermai. - Perfetto allora. Si alzò ed accese il suo Pioneer SX. - È del 1980: un modello insuperabile come qualità del suono, quelli di oggi non sono all'altezza. - disse - Per le casse ero indeciso tra Allison e Klipsch, ma poi ho scelto le prime e credo di aver fatto bene. Il piatto è un Thorens, ovviamente. Mise sul piatto il vinile di Third: dopo un breve fruscio le note di Moon in June cominciarono a diffondersi per la stanza. Quel dannato pezzo ha veramente qualcosa di speciale. Gli inglesi hanno un termine intraducibile per definire quel qualcosa: addictive; una volta che ti è entrato in testa non ne esce più. - Finirai per convertirmi alla musica dei Seventies - gli dissi, scherzando ma non troppo. Scosse la testa scettico: - Magari. Incominciò a parlare, ma le sue parole mi arrivavano come da un altrove, si fondevano con le evoluzioni del canto libero di Wyatt inseguite dalle fantastiche rincorse delle tastiere di Ratledge. Non potevo fare a meno di inseguirle mentalmente anch'io, salendo, scendendo, planando sul suo falsetto patafisico (cit. Scaruffi), trattenendomi a stento dal cantare con lui quando dice ah, but I miss the trees, and I wish that I were home again, back home again e il ritmo cambia di colpo. Questo comunque non mi distraeva dal discorso di Antonio, anzi, me lo imprimeva nei sensi oltre che nella memoria: lo osservavo percorrendo con lo sguardo la sua figura nobile, i suoi lineamenti severi da principe mediterraneo, i suoi folti capelli corvini, lo ascoltavo sorseggiando il mio cocktail di ananas, cocco e rum, e quel miscuglio di parole, musica e piña colada mi scendeva dentro dolce e forte e mi stordiva. È uno dei ricordi più suggestivi che io conservi. - Non è colpa vostra, siamo noi che abbiamo sbagliato tutto. - Antonio usa sempre la prima persona plurale quando allude alla generazione del Sessantotto, alla quale appartiene idealmente - Ci siamo parlati addosso; con la nostra seriosità odiosa abbiamo creato il tipo dell’eterno adolescente che invecchia senza mai diventare adulto, del mezzo alienato, del cioeista disadattato, dell'incazzoso in bilico fra rinuncia globale e autoaffermazione violenta, fra droga e molotov, fra anarchia e terrorismo, un velleitario puro. Non abbiamo affatto cambiato la società: quelli che non si sono integrati sono scappati, si sono creati delle tane, dei rifugi sotterranei, si sono persi. Voi siete la nostra necessaria conseguenza, generazione del nulla che è figlio del nostro vuoto. Non capivo esattamente i riferimenti storici e ideologici, però mi sentivo emotivamente dalla sua parte: lo ascoltavo affascinato con la testa appoggiata all'indietro contro lo schienale del divano, facendo scorrere l'indice lungo il bordo del bicchiere. Speravo che continuasse il discorso sedendosi al mio fianco, ma non lo fece: ci salutammo verso mezzanotte. In seguito abbiamo continuato a frequentarci per qualche settimana da buoni amici. Ma quando finalmente la nostra storia ha preso la piega che desideravo, ha avuto un sapore completamente diverso da quello che avevo immaginato: il sapore appiccicoso di un tuffo nel fango. Mi sono rialzato con le penne inzaccherate, impiastricciato, pesante, sporco. Non sapevo più volare.