Erano le nove di un sabato sera di novembre. Pioveva ininterrottamente da parecchie ore, con un'intensità insolita, e qualcosa nelle condizioni atmosferiche non lasciava presagire niente di buono. C'era una strana tempesta in corso, assolutamente fuori stagione: raffiche di vento sferzavano le pareti della mia villa e facevano fischiare i rami degli alberi del parco. Il cielo si era fatto nero come succede in genere a fine agosto; c'erano tuoni e fulmini da temporale estivo, ma era novembre: per l'esattezza il 5 novembre. Qualcosa decisamente non girava per il verso giusto. Solo più tardi avrei saputo che si trattava dei pròdromi della terribile alluvione che di lì a poche ore avrebbe messo in ginocchio le province di Alessandria, Asti, Torino e Cuneo: il Po e il Tanaro stavano per esondare. I miei erano usciti tutti e tre per una serata di gala al Rotary, mia madre elegantissima come sempre con un abito lungo di Prada e una pelliccia di visone, lasciando dietro di sé una raffinata scia di profumo di mughetto. Non esattamente la serata giusta per andarsene in giro, ma la riunione era in collina, in una villa storica del circondario, lontana da possibili allagamenti, ed era presente un ospite importante, un cardiochirurgo di fama mondiale giudicato imperdibile dai miei. Antonia, poco propensa a quel genere di riunioni, aveva declinato l'invito di Michele ed era rimasta a farmi compagnia mentre studiavo Eschilo per l'interrogazione di greco della settimana successiva. Verso le otto aveva preparato la tavola in cucina ed avevamo mangiato la cena lasciata in caldo da Teresa, che era fuori per la sua serata di libera uscita: sperai per lei che il suo misterioso accompagnatore l'avesse portata al sicuro, povera Teresa. Quando aveva saputo della morte di Tegame mi aveva abbracciato fortissimo piangendo, consapevole del mio dolore, e aveva cercato di consolarmi con un manicaretto piccante dal sapore speziato, sostenendo che il pimento tira su di morale. Avevo obbedito, ma ero rimasto sconcertato da quello strano sapore a metà tra il pepe, lo zenzero e il chiodo di garofano. Era stata la sua presenza materna, piuttosto, a tirarmi su. Finita la cena Antonia aveva sparecchiato, avevamo lavato insieme i piatti e lei si era messa a rielaborare gli appunti per un lettorato che avrebbe dovuto tenere lunedì mattina, mentre io, seduto in salotto sul divano di fronte, sottolineavo sul libro di testo le frasi che mi sembravano più significative. Non c'era alcun sottinteso fra di noi, soltanto il desiderio reciproco di stare di nuovo un po' insieme, o così mi sembrava. Dopo la morte del mio cane lei era diventata molto gentile con me, rendendosi conto che avevo bisogno di dolcezza, ed io gliene ero profondamente grato. - Credo che le Coefore siano la più bella tragedia che io abbia mai letto, insieme ad Amleto - dissi ad un tratto, più a me stesso che a lei. - Hai ragione. Fra l'altro l'accostamento è molto appropriato, perché il personaggio di Amleto è stato modellato proprio sul precedente dell'Oreste eschileo: pieno di dubbi e di incertezze. - E anche Simba, il figlio del re leone, non credi? - Sì, credo proprio di sì. - Era bello Il re leone. Mi è piaciuto tanto. - Sì, era bello. - Quell'incredibile scena in cui Oreste scopre che a sua madre non importa niente della sua morte... E poi il finale, quando lui si presenta sul proscenio, inizia il suo monologo e perde il filo, poi lo riprende, vede le Erinni, salta giù dal palco urlando e scappa via senza riuscire a finire il discorso: credo che Eschilo in quella scena abbia toccato uno dei vertici della poesia mondiale. - Sono contenta che la pensi così: anch'io l'ho sempre considerato un colpo di genio. Questo tono cortese e formale fra di noi era un'assoluta novità: mi metteva un po' a disagio, ma era inevitabile, date le circostanze, e lo accettavo di buon grado. Ricominciai a studiare. Erano passati appena quindici giorni dalla morte del mio cane e mi sentivo completamente a terra, ma stare vicino a lei anche semplicemente a condividere quelle emozioni letterarie mi dava un senso di calore e di benessere. All'improvviso ci fu un boato fragoroso: un fulmine doveva essere caduto nelle immediate vicinanze. Sobbalzammo entrambi, poi di colpo si fece buio. - È saltata la corrente - dissi. - Il fulmine deve avere colpito un traliccio. - ipotizzò lei - Questo significa che il cancello elettrico è bloccato. Non potrò tornare a casa per chissà quanto. - Forse la corrente tornerà presto - cercai di minimizzare, sperando in cuor mio che non tornasse affatto. - Non credo: il tempo fa veramente paura questa sera - rispose lei, e tacque guardando fuori della finestra. Bagliori improvvisi come giganteschi flash illuminavano a giorno il giardino, scattando istantanee agli scheletri degli alberi frustati dal vento; intanto tuoni fragorosi, intercalando il sordo brontolio di fondo del cielo sconvolto, si susseguivano senza sosta. Le imposte sbattevano al vento con violenti schiocchi di frusta: lei si alzò e corse a chiudere tutte quelle del pianterreno, dicendomi di fare la stessa cosa al piano superiore. Obbedii. Quando scesi in salotto era buio pesto, si intravedevano solo lampi di luce filtrare tra le fessure delle persiane chiuse. Lei si era riseduta al suo posto, io feci altrettanto. - Le hai chiuse bene? - mi chiese. - Sì - risposi. E non parlammo più. Quella situazione sembrava fatta apposta per smascherare la finzione: l'imbarazzo era palpabile. La carica elettrica che attraversava l'aria si stava trasmettendo a noi. Eravamo soli, senza speranza di rivedere la luce per chissà quanto tempo. Soli e al buio. Chiusi il libro, ormai inservibile. Pensai che avrei potuto rompere il silenzio con qualche commento generico, intavolare una conversazione sull'anomalia delle condizioni atmosferiche, ma non lo feci. Neppure lei cercò di riempire quel vuoto con banalità di circostanza: rimase a fissare in silenzio il suo quaderno di appunti. Avremmo potuto cercare delle candele, una torcia elettrica, ma non lo facemmo. Trascorsero così, in quella immobilità muta e irreale, almeno venti minuti, in cui sentii il mio cuore pulsare con battiti sempre più lenti e profondi, come se volesse fermarsi per paura di disturbare il silenzio e quello che percepivo in esso. Nel buio vedevo il suo profilo illuminarsi a giorno ad ogni lampo che filtrava attraverso le persiane, la vedevo sempre ferma nella stessa posizione, assorta in contemplazione della copertina del suo quaderno. Non cercava pretesti per parlare, rimaneva in silenzio. Mi sembrava che quel silenzio potesse essere interpretato in un solo modo, ma non osavo crederci. Poi i lampi cessarono quasi del tutto, rimase solo l'ululato del vento, lo scroscio violento della pioggia, lei invisibile di fronte a me. Ormai la mia non era più una sensazione, ma una certezza. Il mio cuore ricominciò a battere con un'intensità quasi dolorosa. Appoggiai la nuca contro lo schienale del divano rimanendo in attesa. Mi ripromisi che non avrei mosso un solo muscolo del corpo, non avrei fatto nulla di nulla: tutto sarebbe dovuto accadere da sé. I miei occhi nel buio dovevano avere la luminescenza delle pupille di certi animali selvatici: ero certo che lei li vedesse brillare nell'oscurità. Dopo un lasso di tempo che mi sembrò interminabile Antonia si alzò senza dire una parola e si sedette al mio fianco. Non so se si aspettasse una qualche reazione da me, ma non feci nulla. Appoggiò la bocca sulla mia e mi baciò in silenzio. Ricambiai il suo bacio con la castità di un'educanda. Sentii la sua mano infilarsi nei miei pantaloni, scoprendomi, com'è ovvio, disperatamente eccitato, in grottesco contrasto con il mio bacio verginale. Immagino che si aspettasse che sbottonassi i pantaloni, ma non lo feci. Doveva essere lei a fare tutto, oppure a non fare nulla: io ero disposto ad accettare qualsiasi cosa. La mia era una resa incondizionata, l'offerta di una vittima sacrificale, lei poteva fare di me quel che voleva, come nei primi tempi; ma, ancor più che nei primi tempi, il mio ruolo era meno di zero, totalmente passivo. Chiusi gli occhi e la lasciai fare in assoluto abbandono, senza commentare, senza sospirare, senza gemere, cercando di non spezzare con alcun suono l'incantesimo di quel momento che avevo creduto irripetibile. In quei minuti potei misurare l'abisso che separava le sensazioni che provavo con lei da quelle che avevo provato con qualsiasi altra ragazza, rendendomi amaramente conto che con nessun'altra sarebbe stato lo stesso. No, mai più. Mentre venivo provai un piacere brutale e violento, come sempre con lei, e insieme un dolore indicibile, lancinante, acutissimo, che mi strappò un gemito più simile all'agonia di un moribondo che al sospiro di un amante. Senza neppure rendermene conto mi ritrovai il viso inondato di lacrime. Scorrevano senza freno, non riuscivo in nessun modo a trattenerle, il mio petto si contraeva in singhiozzi convulsi. Mi sentivo completamente disperato. Lei non se ne stupì: era come se lo avesse previsto, forse addirittura voluto; sospettai che la sua fosse stata addirittura una manovra tra il pedagogico e il terapeutico. Mi accarezzò i capelli per qualche minuto, tenendo la mia testa appoggiata sul suo petto e cullandomi leggermente. Poi disse: - Lo vedi, Emmanuel? Non possiamo più farlo. Ti fa troppo male. Scossi la testa. - Non è questo che mi fa male. È tutto il resto, tutto. Mi fa tutto malissimo. - Lo so - rispose lei con dolcezza. - Antonia, - dissi, cercando di reprimere i singhiozzi - non riesco più a provare piacere senza sentirmi terribilmente in colpa. Sento che non lo merito, sento che dovrei essere morto. Come faccio a vivere così? Come faccio? Mi strinse a sé. - Tu non hai nessuna colpa, Emmanuel. Hai fatto tutto il possibile per il tuo cane e lo hai reso felice. Devi rassegnarti al fatto che i giochi non li decidiamo noi, ma qualcuno più in alto: non sappiamo chi sia né perché questo accada, non possiamo giudicarlo. Ma non siamo noi i colpevoli: non sei tu che hai voluto questo male. Non riuscii a rispondere: un nodo mi strangolava. Avrei voluto dirle che non me ne fregava niente se non l'avevo voluto, perché in ogni caso l'avevo fatto, come era successo con il nonno, e che questo mi rendeva la cosa doppiamente incomprensibile. Ma temevo che lei mi rispondesse che questa era materia per una tragedia di Sofocle e non avevo nessuna voglia di parlare di letteratura in un momento di così profonda e totale disperazione. Quando riuscii a parlare le dissi: - Non sei tu che mi fai male, Antonia. Tu, anzi, mi rendi la vita un po' più sopportabile. Ti ringrazio di esserci. Lei mi strinse di nuovo a sé e rispose: - Sono contenta se posso esserti di conforto, Emmanuel, ma quello che è appena successo dovrebbe farti capire che non è questa la tua strada. Il sesso con me ti fa male, ti rievoca stati d'animo che adesso devi dimenticare, per il tuo bene. - Cos'è che dovrei dimenticare per il mio bene? - Quello che ti aveva fatto stare bene in passato e che adesso invece ti fa soffrire. - Vuoi dire la mia adolescenza? - Non la tua adolescenza: sei ancora giovanissimo. Diciamo quella fase della tua vita. Sorrisi con amarezza. - Ero una specie di Adamo nell'Eden prima del peccato originale: ora l'innocenza è perduta. È tutto perduto. - Non è tutto perduto, Emmanuel: è perduta solo quella piccola parte della tua esistenza, ma hai tutta la vita da vivere. Avrai altre esperienze, molte ti piaceranno: devi guardare avanti. Con me puoi solo guardare indietro e il passato ti fa male. Devi andare avanti per altre vie. - Quali altre vie? - Quelle che di volta in volta la vita ti metterà davanti. Ora come ora devi solo mettere un passo dietro l'altro con santa pazienza, senza avere fretta, finché troverai la tua strada. - Io credevo di averla già trovata, la mia strada. - Non è così, e quello che è appena successo te lo ha dimostrato. Mi sentivo un po' irritato. - Ma cosa mi ha dimostrato? Non so più come dirtelo, Antonia, non sei tu il problema, sono io che non riesco più a vivere il sesso senza essere devastato dal rimorso. Non è che con un'altra o un altro sarebbe diverso. - Io invece credo di sì. In ogni caso devi provarci, per il tuo bene. - Per il mio cazzo di bene! - Io voglio solo il tuo bene, capisci? - No, non capisco affatto. Ti ho appena detto che la tua presenza è l'unica cosa che mi dia conforto, ma evidentemente non mi ascolti. La tua presenza, non il sesso. Io non ti ho chiesto di fare sesso. - Hai ragione, scusami. - Non devi scusarti, è stato molto bello. Solo che non sono più in grado di sopportarlo, mi fa stare male. E se è il sesso che mi fa male, preferisco rinunciare al sesso piuttosto che a te. - Non devi rinunciare a me, infatti: io ti resterò sempre accanto come una sorella maggiore. - Non ho bisogno di sorelle maggiori, ho già un fratello. - Come un'amica, se preferisci. - Io ti amo, Antonia. Non ho bisogno di sesso per amarti. Queste parole mi esplosero dalla bocca come il tappo di una bottiglia di champagne. La colpirono allo stomaco, sentii il suo diaframma contrarsi. Ero stato imprudente, ma la verità andava pur detta. Rimase per un po' in silenzio, senza saper cosa replicare. - Io credo... - iniziò, ma si interruppe. Non sapeva cosa credeva. Il vento fischiava forte fra i pini del parco, li incurvava fin quasi a terra, come archi tesi. Non le lasciai il tempo di riprendere il filo del discorso. - Dimmi che mi ami anche tu. - incalzai - Dimmelo, perché è la verità, lo sai. Continuava a tacere. - Dimmelo - ripetei. In quel momento la luce si riaccese. Ci guardammo in faccia come riscuotendoci da un sogno. Lei arrossì un po', si allontanò da me, mi sistemò i pantaloni e mi rimise a posto il maglione con gesti materni. - Ti senti meglio? - mi chiese affettuosamente. - No - risposi con tono ostile. - Devi andare a dormire: un buon sonno ti rimetterà in sesto. Una banalità del genere, pronunciata in quel momento, poteva avere un solo significato: Antonia non vedeva l'ora di prendere le distanze da me e da quello che era appena successo. La guardai quasi con odio. Lei fece finta di non accorgersene, radunò le sue cose, mi diede un bacio sulla fronte, uscì di casa tuffandosi senza esitazione nella bufera e raggiunse di corsa la sua utilitaria. Pochi minuti dopo la vidi uscire dal cancello della villa. Mi assalì uno sconforto devastante, un indescrivibile senso di solitudine. Avevo avuto la conferma che solo la vecchia strada era in grado di darmi conforto, di alleviare il dolore per la morte del mio cane, ma mi ero sentito dire che dovevo andare "per altre vie". Dovevo andarmene come un accattone vagabondo, così, a caso, dovevo andarmene senza sapere dove, come un cane abbandonato dal padrone in aperta campagna. Non ero io che volevo andarmene, era Antonia che voleva sbarazzarsi di me: ero un pericolo, una minaccia, un fastidio inutile; la sua attrazione per me, di cui avevo appena avuto la più tangibile delle prove, intralciava la sua vita. Mi resi conto che era stato un terribile errore smascherarla, rinfacciarle la verità, dirle che anche lei mi amava: d'ora in poi mi avrebbe riservato solo una tiepida amicizia, o forse, se non ci fosse riuscita, neppure quella. E forse effettivamente, pensai con amarezza, Antonia non mi amava: provava per me un'attrazione irresistibile, ma l'amore era un'altra cosa. Io sì, sarei stato in grado di rimanerle accanto senza sesso, dominando i miei istinti in nome di qualcosa di più alto. Ma lei no, non poteva farcela: in lei non c'era questo qualcosa di più alto, era una creatura troppo materiale, e quel che è peggio, non si rendeva conto di esserlo. O magari, chissà, il mio desiderio di lei non era così intenso come quello che lei aveva di me. La mia testa era sfinita, confusa: smisi di pensare, perché non capivo più nulla. Sentivo che non avevo più nessun punto di riferimento: qualunque cosa fosse in realtà Antonia, per me era stata insegnante, madre, amica, amante. Avevo perso la mia bussola impazzita che segnava un nord qualunque: avevo un disperato bisogno di quel nord, di quella direzione qualunque, sentivo che senza ero perduto. Non avevo più neppure il mio migliore amico, il mio cane. Ero solo, completamente solo. Il mio era terrore puro, un terrore animale, il terrore di Bambi quando perde la madre nell'incendio della foresta. Andai a letto inebetito, barcollando, con la sensazione di stordimento di un ubriaco, portandomi meccanicamente appresso le Coefore. L'urlo del vento fra gli scrosci della pioggia era assordante: avevo l'impressione che stesse per grandinare. Misi la testa sotto il cuscino stringendo irrazionalmente il libro tra le mani, come se Eschilo potesse proteggermi in quella notte di tempesta. Sentii che volevo saltare giù dal palco anch'io, come Oreste. Sentii che forse la soluzione era quella: annegare il dolore nella pazzia.